Ma che clima bello e strano sta vivendo il teatro di Messina. La città, dove ancora si ragiona seriamente sui danni del terremoto del 1908, sta diventando fortunatamente un laboratorio politico e sociale grazie al sindaco Accorinti, che ne ha rilanciato energie e idee. In questa prospettiva, finalmente, si torna a parlare anche del suo teatro grande, il “Vittorio Emanuele”. Curiosa la storia di questa bella sala: a lungo (troppo a lungo) chiusa, poi affidata a gestioni dall’esito decisamente altalenante e poi sospesa in un limbo. Ora sembra che la città abbia deciso di riprendere le redini della situazione. Non ci sono soldi, tanto per cambiare: ma nella diffusa ed eterna categoria delle “nozze coi fichi secchi”, qui almeno si respira passione e rinnovato entusiasmo. Non c’è ancora stagione, né per la prosa né per la lirica, ma intanto il teatro ha un nuovo presidente: una persona seria, ossia Maurizio Puglisi, attore e organizzatore di lungo corso. E già si fanno nomi, alcuni promettenti, per la direzione artistica.
Al momento attuale, però, in attesa di sviluppi, un manipolo di intellettuali, artisti, organizzatori di alto livello ha preso in mano la situazione è ha dato il via a un vivacissimo cartellone di teatro contemporaneo, utilizzando la Sala Laudamo, ossia lo spazio “piccolo” ma graziosissimo, del “Vittorio Emanuele”. Merito dunque all’Associazione culturale Querelle, che allinea teste pensanti e generose come quelle del presidente Vincenzo Tripodo; del docente universitario e autore Dario Tomasello; dell’organizzatore Gigi Spedale e della studiosa e critica Vincenza Di Vita che hanno fatto nascere la rassegna “La prima volta”.
C’è un’idea semplice ed efficacissima alla base del cartellone: invitare dei noti artisti con i loro primi spettacoli, ossia con quei debutti che li hanno fatti conoscere. Il pubblico di Messina – che c’è e risponde con grande attenzione – ha così modo di vedere (o ri-vedere), lavori importanti, ormai “storici” o recenti, con una cura particolare per produzioni che provengono proprio dalla Sicilia: dall’apertura affidata a “Nunzio”, capolavoro sempreverde del 1994 di Scimone-Sframeli; fino alla chiusura che chiama in causa il duo Carullo-Minasi, con “Due Passi sono”, del 2011 (mostrando anche una intrigante continuità sotterranea tra i due lavori).
Per quel che mi riguarda, ho avuto il piacere di scendere in Sicilia – dopo un viaggio piuttosto complesso: Messina è lontana – per assistere a “N’Gnanzoù”, opera d’esordio di quel possente e incisivo mattatore che è Vincenzo Pirrotta. Devo ammettere che, di fronte a questo spettacolo del 2004, sono rimasto affascinato. Il lavoro è frutto di un percorso di ricerca – tra antropologia, memoria, poesia – che racconta una “storia di mare e di pescatori”. Pirrotta, nell’isola di Favignana e a Trapani, ha raccolto le testimonianze dei “tonnatori” e dei “raisi”, che delle tonnare sono i capopesca: racconti di un mondo ormai tenuto in vita solo per i turisti, ma che è stato vero e vivo a lungo, tanto da segnare profondamente la cultura, l’economia, la struttura sociale di quelle zone. La pesca del tonno, con le sue ritualità, con la fatica, i rischi, le leggende, i ruoli, è fatta di appuntamenti solenni. La benedizione dell’equipaggio; l’uscita delle barche; la preparazione delle “stanze”, fino alla “camera della morte”; la mattanza: sono – erano – stazioni di un rito, antico e feroce. Pirrotta ha avuto l’umiltà di raccogliere quei racconti, quei ricordi, quei canti che scandivano e accompagnavano l’attesa delle “tonne” (l’uso del femminile non è casuale) nel “grande padre mare”. Un padre severo e generoso, che dà da mangiare, ma che si deve conoscere, amare, rispettare. Il lavoro di Pirrotta, in scena con il musicista Mario Spolidoro, è quello di tessere, a sua volta, la trama di una rete che è emotiva e intellettuale al tempo stesso. Nel suo recitare – ed è questa la sorpresa, almeno per me, l’elemento che ho capito e non avevo colto prima – Pirrotta non si fa narratore, neppure interprete. Tiene consapevolmente, sin da questo suo primo lavoro, un filo sospeso tra un teatro di narrazione (ormai inascoltabile) e uno di rappresentazione (ormai impossibile): lui, così possente e presente, resta comunque se stesso, anche quando dà voce all’uno o all’altro dei protagonisti di questa storia, ne assume gesti, toni, pensieri. Il fatto poi di intervallare il racconto con le canzoni, “strania” ancor più la possibile immedesimazione, nel momento in cui la riafferma: i pescatori cantavano, infatti, proprio quelle canzoni là e dunque, nella filologia, la ricerca si apre, in modo intrigante, a un esito scenico paradossalmente (post)brechtiano, ossia miracolosamente critico, accentuato dal bel fondale dipinto di Lele Luzzati, tutt’altro che verista. Vincenzo Pirrotta dipana così le storie della generosa signora Rosa, evoca la struggente melanconia del raisi ormai invecchiato, o una buffa novella di Giufà; dà spazio a una processione religiosa o al tradizionale cunto per la mattanza (anche questa, tecnica assolutamente antinaturalista). Ma in questo attraversamento, in questo slittamento continuo tra piani narrativi diversi, Vincenzo ha la forza di “mostrare”, di alludere e illudere, di suggerire a tratti, senza mai davvero perdere la propria centrale identità. N’gnanzoù è uno spettacolo che Pirrotta non faceva da quasi dieci anni: bello trovarlo, nella sua intatta freschezza, oggi.