Zhongnanhai e dintorniIn Cina arriva il “Partito della Costituzione”. Sfida o cooptazione?

Mentre l'attenzione era tutta rivolta all'inizio dei lavori del terzo Plenum del Partito comunista cinese, ecco che arriva improvvisa da Pechino la notizia che meno ti aspetti: la nascita di un nuo...

Mentre l’attenzione era tutta rivolta all’inizio dei lavori del terzo Plenum del Partito comunista cinese, ecco che arriva improvvisa da Pechino la notizia che meno ti aspetti: la nascita di un nuovo partito che – a quanto pare – si pone in posizione dialettica nei confronti di quello guidato da Xi Jinping. Una formazione politica che rimette improvvisamente sulla scena il condannato – o epurato – leader neomaoista Bo Xilai, fino al 2012 astro nascente della politica cinese. Proprio da un gruppo di suoi fedeli – la dichiarazione è della professoressa Wang Zheng dell’Istituto di Economia e Management di Pechino – ha preso vita il 6 novembre il partito “Zhi Xian”, ovvero “La Costituzione è l’autorità suprema”, chiaro riferimento al dibattito che negli ultimi mesi si è sviluppato nel Paese di mezzo sulla applicazione sostanziale della Costituzione del 1982.

Per ora non si hanno notizie precise sugli indirizzi politici e su quale consenso possa avere nelle gerarchie comuniste, anche se è fuori di dubbio che una simile azione una qualche copertura l’abbia ottenuta. L’unica dichiarazione in questo senso è sibillina: “abbiamo più membri rispetto a quelli che nel 1921 erano presenti alla fondazione del Pcc”. I fatti ad oggi sono questi: il neonato partito ha come linea politica – sempre secondo le uniche dichiarazioni della Wang Zheng – quella della “comune prosperità” di Bo Xilai (difesa della proprietà dello Stato in settori chiave e una distribuzione del reddito a favore delle classi più povere) e ha proclamato proprio quest’ultimo come “Presidente a vita”, mentre la Costituzione è tenuta come punto di riferimento concreto. In effetti quest’ultima non vieta ai cittadini il diritto di riunirsi e di formare movimenti politici, ma pone tuttavia un limite a questa libertà: nei Principi generali è fatto divieto a qualsiasi organizzazione o individuo di sabotare il sistema socialista.

Veniamo alle reazioni, perché su questo terreno le principali testate italiane non solo hanno mostrato la consueta mancanza di moderazione ma, e questo è l’aspetto più grave, anche una buona dose di ignoranza. Si è così potuto leggere dell’avviata corsa alla “fine del monopartitismo”, di “sfida aperta” a quest’ultimo, di avvento del “multipartitismo” e della “prima volta” di una sfida di questo genere. Ritorniamo ai fatti, sempre testardi (più di alcune tastiere): sempre la Costituzione cinese, nei suoi principi generali, parla di una “costruzione socialista” portata avanti anche attraverso l’azione di un “vasto fronte unito patriottico” (tongyi zhanxian) che vede collaborare, sotto la guida del Pcc, altri partiti e associazioni. Il quadro politico cinese, sebbene dominato dal Partito comunista, non è caratterizzato dal monopartitismo: nell’Assemblea consultiva – ma loro rappresentanti sono impegnati anche in diversi organi di governo – sono infatti presenti e agiscono liberamente il Comitato rivoluzionario del Guomindang cinese, la Lega democratica cinese, l’Associazione cinese per la costruzione democratica nazionale, l’Associazione cinese per la promozione democratica, il Partito Democratico degli operai e contadini, il Partito Zhi Gong, la Società Jiu San e la Lega per l’autonomia democratica di Taiwan. Nel 2003 proprio da questi partiti e movimenti era arrivata la richiesta formale di una piena attuazione della Costituzione per la formazione di un “governo costituzionale” e la riduzione in esso del ruolo del partito comunista.

Quella del neonato “Zhi Xian” non è quindi la prima sfida su questo terreno. E non lo è anche perché una sfida più aperta fu tentata alla fine degli anni ’90 con la formazione del Partito democratico di Cina, poi messo al bando con l’accusa di attentato alla sicurezza dello Stato. Non è tutto. Sotto la sigla di “multipartitismo”, prontamente sradicata dalla storia cinese, è indubbio che sia nascosta la speranza della fine del governo comunista – vera anomalia dopo il salvifico 1989 – per veder fiorire a Pechino l’alternanza liberal democratica. Ed è proprio qui che emergono visibilmente il provincialismo e l’ignoranza che caratterizzano parte della nostra stampa. Eppure sarebbe bastato poco. Per esempio un minimo di ricerca sulla “sinistra neo-maoista” e la lettura di qualche documento o presa di posizione di alcuni dei suoi esponenti. Niente di tutto questo: il problema è il partito comunista. Punto. Attacca il rosso come i tori.

Quella della “cultura rossa” e della “sinistra neomaoista” – giunta alla ribalta con la figura di Bo Xilai – è una galassia composita che riunisce sensibilità assai diverse che mostrano un acceso nazionalismo, una strenua difesa dei valori cinesi di contro a quelli occidentali, l’attaccamento al modello di sviluppo cinese ritenuto unico ed irripetibile e – sorpresa – anche il rifiuto del modello politico multipartitico occidentale. Uno degli esponenti è Hu Angang, professore di economia alla Tsinghua di Pechino. Ebbene, l’eminente professore, non più tardi dello scorso agosto, ha difeso la superiorità del sistema politico cinese nei confronti di quello statunitense in quanto più adatto ad affrontare le sfide contemporanee. Sotto la sigla di “leadership collettiva” utilizzata da Hu agisce chiaramente la difesa del modello a partito unico. Oltre a questo c’è poi da capire come la difesa della Costituzione – che è frutto del superamento della Rivoluzione culturale – celebrata come atto fondante del nuovo partito possa coniugarsi con la “nomina a vita” di Bo Xilai, vale a dire con la personalizzazione o il culto della personalità che in Cina hano portato a non poche tragedie e al totale disconoscimento di ogni garanzia giuridica.

Ma adesso cosa potrebbe succedere? In un quadro caratterizzato da poche notizie, è difficile fare ragionamenti debitamente fondati. Una considerazione va fatta: le iniziative “maoiste” di Xi Jinping – difesa della compattezza ideologica, rifiuto del liberalismo, compagna moralizzatrice e anti-corruzione, nazionalismo – non hanno probabilmente sfondato a sinistra, dove si temono riforme economiche che intacchino con decisione il settore statale dell’economia. Detto questo le possibilità sono due (la terza, ovvero che l’iniziativa sia priva di consistenza la scartiamo): quella della mano di piombo e quella della cooptazione. La prima è quella dell’azione di repressione da parte del Partito comunista, la cui attuazione dipende però dal grado di consenso che la nuova formazione ha negli “alti piani”; la seconda è quella di un graduale assorbimento nel “Fronte unito”, operazione che potrebbe alla fine configurarsi come una copertura a sinistra all’azione di governo.

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