Un altro NordestManu-facto o 3D print? Questo è il problema

«Un grande gruppo francese ci ha contattato per sondare la possibilità di riprodurre artigianalmente in legno un occhiale che è già in commercio in acetato. Abbiamo risposto che per fare un prototi...

«Un grande gruppo francese ci ha contattato per sondare la possibilità di riprodurre artigianalmente in legno un occhiale che è già in commercio in acetato. Abbiamo risposto che per fare un prototipo non c’è nessun problema ma che, prima, sarebbe stato meglio sondare il prezzo. Abbiamo fornito il nostro costo e il gruppo ci ha messo in concorrenza con altri produttori e rilanciato al ribasso, chiedendoci dieci volte di meno. Abbiamo risposto: «No grazie; se volete a quel prezzo c’è la stampante 3D, il prototipo potete farlo con quella. Poi eventualmente ci risentiamo, se volete davvero venderlo ai clienti con il vostro marchio».

E’ la testimonianza di Daniele Mattellone, titolare di W-eye azienda artigianale di Udine che produce occhiali di legno ad alto contenuto di design e tecnologia. La risposta non è banale e, ne sono certa, ha richiesto un grande «orgoglio italiano». Perché, non dimentichiamocelo: questi sono i tempi in cui, non un’azienda qualunque ma Coca Cola sta investendo massicciamente sulla stampa 3D anche come strumento di marketing, lanciando nuove mini bottigliette e una campagna chiamata «Mini-me» che mette in palio una riproduzione in 3d della propria persona. I partecipanti creano il proprio «Mini-me» in una app e, se vincono, vanno direttamente nel laboratorio a creare da soli il proprio Avatar.

Non solo: oggi chiunque può creare qualcosa da solo stampando in 3D. I business, come accade sempre nella tecnologia, stanno diventando democratici. Per costi, ma anche per uso: sono sempre di più i servizi, definiamoli di outsourcing, che si irradiano da questo business, appoggiandosi in esterno a uffici o ambienti di co-working dove si usa una stampante 3D e spesso con programmi informatici di base, touch screen e con easy software.

Eppure, se un maker (sia esso designer o auto-produttore) può fermarsi a quel pezzo o a un quantitativo sufficiente, un artigiano ha bisogno d’altro. «Non sian fatti per essere anonimi» e «neanche standard» direbbe qualcuno. L’unicità di W-eye è data dal marchio, in alcuni casi da un numero seriale o da pezzi davvero unici che vivono le differenze come un plus. E’ per questo che un artigiano dell’oro, terzista per grandi nomi e brand della gioielleria, non si vergogna a dire: «Ho provato le stampanti 3D ma poi dovevo mettere mano e rifinire ogni singolo pezzo e, alla fine, provo piacere nel differenziarlo». Lo dice Arduino Zappaterra. Ed è qui la differenza. A Et-Rosa, azienda di modelleria/prototipia vicino Valdagno (VI) si taglia la pelle sia a mano sia con la macchina. Funzionano entrambe le strade, «dipende dal cliente e della richiesta» spiega il titolare che è un imprenditore filosofo registrato all’anagrafe come Olisse Gozzo. Ed è forse questa la strada più difficile da imboccare: in quella sintesi che porta a un artigianato industriale. 

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