un ritratto di Lee Von Trier ad Hackney (foto via @Flickr)
“Insopportabile, assolutamente insopportabile”. Il giudizio di Matilde è immediato, lapidario e riservato a quello che ormai con un certo astio chiama “il chiacchiericcio degli italiani all’estero”. Sempre insieme, sempre a compiacersi ed acclamarsi a vicenda più di quanto non avrebbero mai fatto nel loro paese d’origine, sempre a rimostrare e denigrare quello che hanno lasciato. Un continuo. Quelli che prima di abbandonare il loro paese magari Pasolini non lo avevano mai letto o visto, adesso non perdono occasione per citarlo e farlo proprio davanti ai nuovi amici italiani trovati a Londra o quando qualche straniero incuriosito chiede dell’Italia e di quello che sta accadeno. Per Matilde sentire quel “chiacchiericcio” è peggio che tornare a casa con i piedi bagnati dalla pioggia dopo una lunga giornata di lavoro.
“Immaginati Pasolini ad Hackney, Limehouse o Peckham, altro che le sue borgate romane di contadini al sole che sotto sotto se la passavano abbastanza bene. Qui avrebbe trovato veri ‘Ragazzi di Vita’ di tutt’altra stoffa: il cockney, le anguille per cena, la fabbrica dura, droga, violenza … ”, dice entusiasta all’amico un ragazzo alto, moro e sicuro nella sua giacca di pelle nera. “Il chiacchiericcio” Matilde lo ha definito come una gara malsana a chi della cultura lasciata a casa al momento della partenza riesce a ricordare di più e a citare con maggiore frequenza. Il problema del “chiacchiericcio” e’ che e’ sorretto da un’energia poco sincera, dalla stessa vampata calda innescata quando si scopre che l’ex ragazza esce con l’amico di un amico. Invidia e gelosia attanagliano lo stomaco e subito dopo sale quella fastidiosa sensazione che l’ex ragazza ti abbia dimenticato troppo presto.
Così si sente Matilde ogni volta che osserva un gruppo d’italiani. Lei è scappata e adesso loro, senza permesso, irrompono nella nuova vita che ha tanto faticato a crearsi. Ogni volta che sente una parola dal suono famigliare, osserva un gruppo di amici interagire come un tempo facevano i suoi vecchi compagni, o peggio, vede un paio di Hogan abbinate a un Refrigiwear si sente vulnerabile e a disagio. Non sa neanche esattamente il perché. Da un lato, di questo è certa, non vuole ricordarsi troppo di casa e dell’Italia; dall’altro, forse, ha sempre pensato alla sua scelta di andarsene dal suo paese come qualcosa di speciale, di forte, qualcosa che la rende un po’ unica. Lei sola è riuscita a capire l’asfissia del paese, a vederne da lontano l’inevitabile declino e l’assenza di prospettive. Senza genitori ricchi capaci di pagarle l’università, senza spinta o aiuti ha preso coraggio ed è partita per ricominciare da capo. Più italiani vede per strada più ripensa ai suoi amici con cui non si sente da una vita, ai vecchi bar, alle Peroni, agli arancini sempre uguali. Ed e’ forse per questo che senza accorgersene a volte si ritrova ferma a pensare che in fondo non c’e’ nulla di male a citare Pasolini a sproposito o canticchiare De André o Guccini aspettando la metro.
“È comprensibile”, si dice, “qualcosa che forse dovrei apprezzare perché e’ la ricerca e la difesa di un’identità sotto attacco” Alla fine è così anche per quella vampata nello stomaco al pensiero dell’ex ragazza nuda: egoismo di cui non c’è un vero motivo di vergognarsi ed e’ del tutto naturale. Questi pensieri durano poco però; solitamente Matilde ritorna sui suoi passi: all’idea di rifiuto da cui è partita, alla voglia di non pensare alla sua città e di staccarsene il più possibile. Quando quattro anni prima si e’ imbarcata per Londra, Matilde ha deciso che mai potrà scusare gli italiani che nulla fanno per cambiare la stantia narrativa italiana e a cui, al contrario, piace giustificarsi in un declino che li esenta dall’essere protagonisti.
Al Visconti, al liceo, aveva fatto un po’ di politica, manifestazioni, striscioni contro Berlusconi, la guerra in Iraq e la base del Molin. Ma nulla. Anche Berlusconi, lo aveva lì, davanti a scuola, a due minuti a piedi dal portone del liceo ma non è mai riuscita a lanciare una pietra, una bomba-carta costruita in casa o un san pietrino nonostante lo immaginasse almeno una volta a settimana. Era come se lei e i suoi compagni si fossero abituati al disfattismo cronico e fossero sorretti da un narcisistico sentimento di “mal comune mezzo gaudio”.
La colpa era anche dei giornali. Lo aveva deciso da qualche anno, da quando si era messa a cercre informazioni sui blog Di Repubblica e del Fatto che cavalcano l’onda dei giovani arrabbiati senza bussola che non sanno dove guardare e si lanciano contro improbabili nemici che complottano contro di loro. Le tornava in mente quella vecchia canzone di Orietta Berti che tanto piaceva a sua madre “finché la barca va lasciala andare”. Oggi invece, camminando per strada da casa al lavoro, si immagina spesso muta davanti al Parlamento in segno di protesta. Immobile e coraggiosa. Non si sposta neanche quando la polizia le chiede di andarsene. Nonostante il tono minaccioso non risponde; incrocia le braccia e resta ferma. Indispettito il poliziotto alza la voce –“signora, per favore; deve spostarsi” – ma lei nulla: continua a resistere. Con la coda dell’occhio la nota una passante che con lo stesso silenzio si mette al suo fianco destro. Incrocia le braccia, chiude la bocca, gli occhi e aspetta. Poi un altro e un altro ancora finché l’intera Roma è li davanti al Parlamento. Composta e ordinata. Nessuno può recriminare o rispondere additando qualche colpa ai manifestanti. In quel silenzio i parlamentari non avranno nulla da dire e saranno costretti, ammutoliti, a stare soli davanti ai loro fallimenti.
Ma rimane una fantasia, come quelle che aveva al liceo. Neanche Matilde riesce a fare un passo in una direzione precisa. E se dai giovani era rimasta delusa, dai vecchi, quelli che stanno bene, quelli che a parte una preoccupazione materna o paterna, sotto sotto, non si interrogavano sul futuro del loro paese si aspetta ancora meno. Loro si accontentano di aggregarsi al coro di lamentele dei giovani con quella simpatia un po’ distaccata di chi sa che tanto non dovrà affrontare il problema. È come quando racconti qualche particolare intimo a una persona che vedi spesso, ma che ha sempre resistito a diventarti un vero amico. Tu ci provi, confessi qualcosa, ma la risposta è un misero pensiero stantio, una frase fatta, sentita e risentita che serve a non sforzarsi. E lì capisci che quella persona non vuole realmente addentrarsi nella conversazione, ma soltanto divincolarsi in maniera elegante, senza scontentarti, ma senza darti nulla in cambio.
Da tutto questo Matilde è scappata all’improvviso, una mattina presto, dopo essere tornata dall’ennesima serata passata con gli amici in giro per Trastevere senza una meta e senza una visione di come quella stessa serata sarebbe potuta essere diversa da lì a dieci anni. Si sarebbe trovata sempre lì, sotto la fontanella, di fianco a un cantautore fallito, agli americani in infradito e piedi sporchi, le sigarette fumate una via l’altra senza troppa voglia e in attesa di un sonno che non arriva.
Non è spiacevole, per nulla. Roma per Matilde è sempre stata l’abbraccio caloroso di una donna. Ha sempre immaginato la curva che da Monteverde, passando per il Giannicolo, la porta a Trastevere come un’anca. Lei viveva sul seno e lenta scendeva lungo quell’anca per raggiungere l’ombelico, il centro della sua vita a Roma: la piazza con la fontana, il cantautore senza futuro e gli americani in infradito. Un piacere che non le dava più soddisfazioni.
Una sera come tante altre aveva deciso che quella sarebbe stata l’ultima.
Adesso pian piano, senza preavviso, quel girotondo di Trastevere lo ritrova fra le vie di Londra. Le parole “Pasolini ad Hackney” l’hanno ricondotta a Santa Maria, a provare le stesse sensazioni che l’hanno portata a mollare tutto e andarsene. Così all’improvviso sbotta in faccia a quei due ragazzi che per puro caso le sono capitati di fianco. “Tutti storici siete adesso cazzo. Ma perché non fate qualcosa di più utile e concreto invece di banalizzare ogni cosa e parlare senza avere idea di che cazzo davvero significhi ‘Pasolini avrebbe descritto Hackeny come …. ?’”, urla senza porsi freni. Il bar si fa silenzioso. I clienti, hipster un po’ invecchiati che si sono ormai dati una calmata, si girano a guardare la scena. Fuori il traffico e dall’unica finestra del locale si intravede l’imponente moschea bianca di Whitechapel. La musica continua nel sottofondo. Passano Cymande, uno degli artisti preferiti di Matilde. Ritmi afro, chitarra lenta e costante, e una voce lontana, soffusa, di compagnia. Fino all’attimo prima i due ragazzi parlavano tra di loro sicuri, col tono di chi è convinto che nessuno possa capirli in quel bar sconosciuto di un paese straniero. Una pinta in mano per ciascuno, contenti di essere all’Indo, soddisfatti di essere a Londra, beati si essere lontani dall’Italia, dalle famiglie, dall’università.
L’urlo di Matilde, italiano e improvviso, li ha presi alla sprovvista. I due amici non reagiscono. Sono basiti, di marmo, ritratti nel loro silenzio come per nascondersi e aspettare acque più’ calme. La faccia del ragazzo che fino al minuto prima le aveva dato le spalle ricorda a Matilde quella di suo fratello piccolo quando il nonno lo sgridava. Ogni volta Paolo tentava di rispondere al nonno e dalla paura balbettava. Incattivito da quello che vedeva come un affronto rispondeva: “Non ciangottare e ascoltami …. Non ci provare…. guarda che ti sento … ti sen-to”. Allora Paolo diventava ancora più’ insicuro. Gli occhi gli si spengono, la bocca si appiattisce amara. “Ma noi … veramente … si stava soltanto a chiacchiera. Si diceva così, tanto per dire”, azzarda il più alto dei due.
“Ah ecco. Il solito cazzo di comportamento che odio. Scarica barile. Chiacchieravate tanto per chiacchiera’, ma avete detto anche un sacco di cazzate no?”, lo interrompe brusca togliendogli la possibilità di giustificarsi oltre. Nel bar di nuovo silenzio. Matilde si passa la mano destra tra i capelli per ritrovare un po’ di calma. Se le avessero risposto senza cercare scuse, ma chiedendole perché invece non si facesse ‘i cazzi sua’ probabilmente imbarazzata sarebbe uscita dall’Indo per tornarsene verso casa. Ma non è andata così e adesso Matilde non sa che fare sorpresa dalla sua stessa rabbia. Prende tempo sistemandosi meglio sullo sgabello di legno scuro su cui è seduta. Cerca lo sguardo di Tommaso, il barista con il quale durante il discorso dei due ragazzi si è scambiata qualche occhiata di intesa. Sa benissimo però che Tommy non sarebbe mai intervenuto. Ventotto anni, toscano come i due ragazzi in giacca di pelle nera, a Londra da anni come Matilde, prova però ancora più astio verso i suoi compatrioti. Da qualche anno, con pochissime eccezioni, ha addirittura smesso di parlargli. Antagonismo puro, quasi ideologico. Matilde e Teresa, la sua ragazza, sono le uniche due eccezioni che si concede.
Intanto nel pub riprendono le conversazioni. È partita “The Message” di Cymande, la penultima canzone dell’album … “Make your way don’t help me, don’t watch where I go” …
“Qual è il vostro film preferito di Pasolini?”, chiede Matilde in tono conciliatorio. I due si guardano. Non sanno se diffidare o essere contenti che la reprimenda sia finita e di aver forse trovato una ragazza con cui parlare, l’amica di una sera. Non si azzardano ancora a rispondere. Hanno paura di sbagliare e di istigare nuova rabbia. Silenzio. Il più alto dei due finalmente si decide. La sua espressione è distesa. Inizia a parlare tenendo gli occhi concentrati sulla pinta di birra. “Beh … siamo abbastanza d’accordo sul film che ci piace di più”. Alza lo sguardo e nota la camicia a scacchi rossa e bianca di Matilde, come la porta con eleganza sotto un blazer azzurro e una grossa sciarpa che si avvolge elegante intorno al collo lungo e bianco – “E’ carina”, pensa tra se e se’ – “Accattone secondo noi e’ il migliore. Ci è piaciuto un sacco. Quando siamo andati a Roma siamo stati a vedere la sua vietta, la sua casa, quello che era il bar dove si ritrovava con gli altri mezzi malavitosi. Bello! bello davvero!”.
“Remember you’ve been told … together we can go”.
“Ho capito …… E Accattone a Hackney che farebbe?”
“Non so, sai: era per dire. A Londra di sicuro non poteva starsene a spasso come a Roma. Gli toccava subito la fabbrica”, continua il più alto dei due ragazzi. “Poi non è che l’ho vista bene bene Hackney. Però me la immagino così. Siamo stati ieri nella parte turca, con gli immigrati, i vecchietti che aspettano fuori dai negozi, la gente che gira senza sapere bene che fare, questo senso di comunità che a Londra non c’è. Al bar Accattone aveva gli amici, a Londra mi sa che non ne avrebbe avuti”.
“Remember you’ve been told … together we can go”.
Matilde non risponde e ordina un’altra birra. L’atmosfera si distende. Il suo interlocutore si gira verso l’amico dandogli di nuovo le spalle. Matilde beve un lungo sorso della sua nuova pinta, la appoggia davanti a se, incrocia le braccia e chiude gli occhi come aveva fatto tante altre volte nelle sue fantasie. Smette di ascoltare.
I due provano a parlarle – “ma tu da quanti anni sei a Londra? – ma nulla. Ci riprovano – “Che lavoro fai? … perché noi pensavamo di trasferirci qui appena dopo la laurea e sarebbe bello avere qualche consiglio”. Matilde non risponde. Tommy ride divertito. Conosce la fantasia di Matilde di essere in tailleur in silenzio a braccia conserte davanti al Parlamento. Sta attento però a non far capire ai due ragazzi che capisce cosa dicono. Guarda fuori e vede la moschea bianca.
Questo racconto e’ prima apparso qui