Lo ammetto, sono un bofonchiatore.
Non di quelli incalliti. Di norma, riesco ad avere una buona dizione, erre moscia a parte. Se parlo in pubblico, poi, scandisco bene e raggiungo perfino un tono da bravo oratore. Ma, sì, talvolta mi capita di interloquire distrattamente, mangiandomi le parole. E generando malintesi.
Per esempio, sabato scorso.
Sono su un’auto, seduto dietro, di ritorno da un incontro con una simpatica scolaresca di Fossano, località a una trentina di chilometri da Cuneo, dove mi trovo per il festival Scrittori in città. Non manca molto a mezzogiorno, orario entro il quale devo arrivare in albergo per un’intervista.
La vettura è quella di un servizio taxi e alla guida c’è un autista che mi è venuto a prendere e, da quel poco che ci siamo detti finora, deve essere stato informato di stare trasportando uno scrittore. (Io, per la verità, solitamente evito di presentarmi come tale. Mi imbarazza, per motivi sui quali non è il caso di dilungarsi qui.)
Ebbene, a un certo punto, sbirciando la strada comincio a preoccuparmi. Ci troviamo in mezzo alla campagna e si avvicina l’ora dell’intervista.
“Mi scusi,” chiedo dunque all’autista seduto, ovviamente, davanti, “quando arriviamo?”
Quando arriviamo?
Okay, con il senno di poi, forse non l’ho proprio chiesto distintamente. Forse l’ho un po’ bofonchiato. Fatto sta che, come scoprirò solo in seguito (ma vi anticipo, per l’efficacia del racconto), l’autista capisce: “Sin quando viviamo?”
Sin quando viviamo?
Ma io non lo so, questo. Io so di avergli chiesto: “Quando arriviamo?”
Le cose, da adesso, vanno più o meno così…
“Io… non lo so,” mi dice lui, che mi appare incomprensibilmente imbarazzato. “Sono solo un tassista!”
Sono spiazzato. “Come sarebbe a dire?! Non capisco…”
“Se non lo sa lei, che è uno scrittore…”
Comincio a scaldarmi. “Ma che cosa c’entra?! Che ne dovrei sapere?! E perché, poi? Non sono nemmeno di Cuneo!”
Il povero tassista ora ha un’aria grave, quasi solenne. Cerca una risposta. “Be’, ogni giorno bisogna inventarsi qualcosa…”
Di contro, io mi sto incazzando. “Eh?! Inventarsi qualcosa?! Ma ci sarà pure una strada!”
La discussione va avanti ancora un po’, nell’incomprensione reciproca. Alla fine l’autista si limita a scuotere la testa, avvilito e sconfitto, guardandomi attraverso lo specchietto retrovisore interno. E per fortuna, allora, ripeto: “Insomma, le ho soltanto chiesto quando arriviamo!”
E qui, grazie al cielo, l’equivoco si chiarisce.
“Oh, mi scusi,” dice il tassista. “Avevo capito…”
Poco dopo arriviamo all’albergo, in tempo per l’intervista. Io sto ancora ridendo.
Il tassista invece si scusa di nuovo (e senza ragione), prima di ripartire. “Ma si figuri!” dico io, ora cordiale. “È stato divertente.”
Ma, quando lo guardo un’ultima volta, non sembra divertito, anzi. Strano.