CineteatroraUna vita rubata a cercare la parola

Si parla di propensioni, malattie, influenze, trasformazioni, orientamenti e persino aberrazioni, ma mai si arriva a centrare il bersaglio di un linguaggio che raccolga tutta intera la storia di u...

Si parla di propensioni, malattie, influenze, trasformazioni, orientamenti e persino aberrazioni, ma mai si arriva a centrare il bersaglio di un linguaggio che raccolga tutta intera la storia di un uomo che indossa abiti femminili o di una donna che sceglie di amarne un’altra e ridurre all’osso gli orpelli. Dire qualcosa sulla transessualità è diventato un atto di costume, una boutade salottiera se prima non si è cercata davvero la parola, se non si riconosce lo sforzo di tradurre in esperienza che scruta evitando battute corrive.

Il martedì al Monoprix di Emmanuel Darley è un copione che insegue fortemente il ricorso alla parola dietro gli sguardi ossessivi e giudici puntati dritti su Marie Pierre, transessuale che ha deciso di dedicare ogni martedì al padre anziano rimasto vedovo e solo. La disputa sul nome e le declinazioni di genere riguardano ogni corpo di frase, Jean Pierre non esiste più e la sua cancellazione è un grido soffocato nella volontà di spiegare come dall’inizio della vita e della predilezione per pratiche tipicamente casalinghe, quel figlio scalzato dalla rettitudine ipocrita non abbia mai avuto dubbi. Così il rituale del martedì, a fianco di un genitore che colpisce a mezze frasi, con mimica sprezzante e silenzi di vergogna, si ispessisce nella posa ricercata di Marie Pierre, che divora la paura e il fallimento familiare a colpi di ritocchi e memorie da non gettare del tutto al macero.

«La mia vita, una giornata rubata al resto e via» è tra le confessioni aperte, ma alle spalle di un padre che blatera e offende prigioniero di un’infermità progressiva e testimone del tempo. Il copione di Darley insegue il monologo e lo spasmo di Marie Pierre, invoca un interprete che degli sconfinamenti del giudizio, fissati brutalmente sulla pelle, metta a nudo le ritrosie tormentate. Enzo Curcurù è un attore in grado di attraversarne età e ragioni differenti senza caricare di vezzi o coloriture televisive un intreccio a due, dove le uniche reali inversioni sono quelle di gerarchie di forza tra carnefice e vittima.

L’abbandono della vita accomodante per l’isolamento cittadino, dove è concesso passeggiare con scollature vertiginose senza destare ribrezzo, non rimuove il vincolo con la periferia. La distinzione capitale si respira nell’indole di chi frequenta la stessa catena di supermercati Monoprix, là dove Marie Pierre e il padre si recano il martedì per la spesa settimanale. La cura meticolosa del giro in ogni reparto, la precisione e consequenzialità delle azioni, la fiera degli occhi sinistri o complici, il saluto allusivo di chi sta alla cassa e la distanza presa dal padre di Marie Pierre mentre camminano sullo stesso marciapiede, tirano i fili della marionetta cui Curcurù non attribuisce facile compiacimento, né doppio senso languido. La sola doppiezza possibile, insita nel rischio della voluttà frivola e nel melodramma, è tra un passato di fuga e un presente che ha incancrenito la pazienza, facendo resistere la paura con l’ironia.

La regia che fa da sfondo alle scene in continua ricerca della parola e delle maschere che Curcurù anima senza risparmiarsi, con il controllo di un mestiere senza esasperazione fuorviante, rischia di affossarsi e lasciare soltanto libero sfogo all’umanità solitaria in scena tra cocci rotti di stoviglie, una fila d’abiti che crolla e il loop del rantolo finale di Marie Pierre. Di didascalismo si tratterebbe se non fosse che proprio la tempra d’attore e di molte tracce del testo, generose di indizi a ben rendere la diffidenza logorante di due protagonisti in uno, percorrono una scrittura insistente e credibile, scissa tra prostrazione e dignità, ammissioni e ricordi, risa sguaiate e ritorsioni sofferte in un angolo riposto della strada oltre i riflettori benpensanti.

Una vicenda viva agli occhi di chiunque, già sentita eppure mai abbastanza perenne da essere accantonata o reputata inessenziale, una condizione e una drammaturgia che della cronaca smettono di fare la traduzione scialba per scomporre una faccia di cipria e una stanza con un tavolo e delle sedie rovesciate fino all’atto che distrugge la voce, ma non il racconto. Le luci cascano nel buio senza che sia possibile perdere il segno di Marie Pierre, della sua bellezza che vorrebbe sfrontata e adorata almeno una volta. Ancora qualche sperdimento, rabbia e punto di rottura ci vorrebbero però per non correre troppo di getto fino all’ultima riga.

Fino al 24 novembre 2013 – Teatro Elfo Puccini Milano

IL MARTEDÌ AL MONOPRIX

di Emmanuel Darley

regia di Raffaella Morelli

con Enzo Curcurù

scene di Romualdo Moretti, costumi di Giovanna Napolitano

produzione LaContemporanea