L’onesto JagoVenezia, Latella e la battaglia del Goldoni

Il Servitore di due padroni, regia Antonio Latella, foto di Brunella Giolivo   Mi perdonerete se parto dalla cronaca: ma è stata una battaglia, e vale darne conto. Al teatro Goldoni di Venez...

Il Servitore di due padroni, regia Antonio Latella, foto di Brunella Giolivo

Mi perdonerete se parto dalla cronaca: ma è stata una battaglia, e vale darne conto. Al teatro Goldoni di Venezia lo spettacolo di Antonio Latella e Ken Ponzio, Il servitore di due padroni ha suscitato il terremoto. Gli abbonati dello Stabile hanno retto tre quarti d’ora, poi è iniziata la guerra: proteste, grida, gente che se ne andava rumorosamente, commenti inviperiti, risate sarcastiche.

A Venezia, il sior Carlo Goldoni è, per molti, ancora ben rappresentato dalla statua che controlla, sorniona, Campo San Bartolomeo, ai piedi di Rialto: un bel pezzo di piombo, collocato su un piedistallo. Un Goldoni intoccabile, da conservare. Diciamo: roba da museo. L’età media dell’abbonato veneziano è piuttosto alta, ed è un pubblico sì curioso e affezionato, ma – come avviene in tante altre città – abituato a un tipo di teatro quanto meno retrò, piuttosto “tradizionale”. Ed è stupefacente quanto, proprio nel nome di una fantomatica tradizione, si consumino fraintendimenti. Lo Stabile, guidato ancora da Alessandro Gassmann, si mette in discussione, e sta tentando di forzare, con successo, le maglie strette di una visione borghese e passatista della scena, proponendo spettacoli (tra produzione e ospitalità) di tutt’altro taglio. Ma immaginatevi voi come potesse essere atteso, in laguna, questo nuovo Goldoni, per quanto riscritto: la memoria dei più è ancora incardinata ai lazzi inventati – vale la pena ricordarlo – da Strehler, Moretti e Soleri. A una “tradizione”, dunque, non certo settecentesca e veneziana, ma paradossalmente tutta novecentesca e meneghina, capace però di trovare i suoi paladini. E se si sgarra, se non ci sono le maschere o le belle sonorità venete, quegli abbonati, quegli spettatori, sono pronti a immolarsi o a dichiarar guerra. Così è stato per Latella.

Un combattimento, dunque, senza esclusione di colpi che, però, ha segnato un momento fondamentale, dal punto di vista simbolico, nella storia di questo teatro. È successo, infatti, che all’intervallo, dopo la diaspora arrancante dell’abbonato over65, la platea si sia riempita di altri spettatori, calati con i loro zainetti, gli anfibi e le bottigliette d’acqua dalle gallerie e dal loggione dove erano appollaiati. Sono scesi in tanti, giovani e giovanissimi, studenti o attori in erba, e si sono impossessati delle file di platea. Un quarto d’ora è bastato per assistere a questa rivoluzione, a questo meraviglioso scarto, al cambiamento generazionale, estetico, poetico e politico, della sala. Due mondi a confronto.

Forse, mi permetto di dirlo, il regista e l’autore non sono ben consapevoli del portato della loro proposta. Questo spettacolo, al di là dell’esito scenico di cui si dirà tra poco, ha un valore significativo: mette infatti direttamente e profondamente in discussione non solo quell’idea di “tradizione” cui si è fatto cenno, per tanti aspetti già profondamente superata, ma rappresenta anche e soprattutto un sano scossone generazionale, direi culturale, al sistema teatro. Questo “contro-arlecchino” è, potrebbe essere, il punto di non ritorno, il libera-tutti, il deprofundis di una stabilità all’italiana infiacchita su se stessa. Per quanto paradossalmente prodotto da ben tre stabili (Venezia, Prato e per capofila il potente Ert di Modena) in questo spettacolo Latella, con i suoi attori, scava dall’interno il sistema, lo ribalta, ne svela le macerie, e apre ad altri scenari. Un significativo segnale, in questa ottica, è il fatto stesso che il regista abbia scelto nel ruolo dei protagonisti, due straordinari attori-solisti come Roberto Latini e Federica Fracassi, che si affiancano al nucleo solido e di qualità degli interpreti con cui Latella già lavora da tempo: Elisabetta Valgoi, Giovanni Franzoni, Annibale Pavone, Rosario Tedesco, Marco Cacciola e Lucia Peraza Rios, con l’ottimo Massimiliano Speziani – che porta in dote ancora un’altra storia teatrale. La faccenda, allora, acquista valori più ampi: è stata, quella di Venezia, magari in piccolo, una nuova battaglia dell’Hernani; un nuovo Sacre, a 100 anni esatti dal debutto dell’originale, capace di spaccare la platea.  

Detto questo, veniamo allo spettacolo in sé, spezzando una lancia anche a favore dei suddetti abbonati. Molto ci sarebbe da dire, proverò a enucleare alcuni punti. Il Servitore di due padroni è ancora un lavoro incompiuto da molti punti di vista. Parte da un assunto interessante, ossia che Arlecchino in realtà sia il fratello incestuoso di Beatrice, spingendo la drammaturgia a indagare i rapporti di coppia – non tutti adamantini – già presenti nel canovaccio goldoniano. Ken Ponzio, più autore che drammaturgo, vira poi verso una esplosione del dettato del testo, in direzione di una metateatralità aspra, macabra, violenta: il gioco delle maschere e degli svelamenti – pirandelliano, muelleriano – si moltiplica su ogni personaggio. Ma, in tale vertigine, si perde presto il filo del racconto, che si affastella troppo su se stesso e si dipana in mille rivoli lasciati troppo insoluti. Lo spettacolo, così, diventa nella prima parte un faticoso girare attorno al nulla, evidente nell’entrata del personaggio principale: un Arlecchino completamente biancovestito, cui Latini dà voce pinocchiesca, carmelobeniana e movenze burattinesche non aiutato, però, da un sincretismo linguistico (dialetti vari, francesismi, anglismi) che moltiplica i segni ma priva di identità. Se nel Tram chiamato desiderio, Latella aveva intelligentemente risolto il problema del “precedente vincolante” facendo indossare a Vinicio Marchioni-Kowalski una maglia con stampato su il faccione di Marlon Brando, qua il “contro-arlecchino” non risolve il rapporto con il pubblico.

Ma il lavoro è, al tempo stesso, pieno di intuizioni, di scelte felici. A partire dalla scenografia di Annelisa Zaccheria, che ambienta il tutto in una sorta di Overlook Hotel, con una tv perennemente accesa, smontato a vista nella seconda parte. Poi la caratterizzazione di alcuni ruoli: dal mefistofelico maestro di cerimonie e narratore Brighella di Speziani, alla Clarice in cerca di identità (sessuale) di Elisabetta Valgoi; dalla Smeraldina pragmatica e struggente di Peraza Rios alla volitiva e esplosiva Beatrice della brava Fracassi. Ma tutti, ciascuno a suo modo, danno contributi significativi. Sono un manipolo di coraggiosi attori, mandati a combattere, là in scena, e a resistere, comunque egregiamente e nervosamente, in questo carillon della sovraesposizione e dell’eccesso. La sensazione che si ha, però, è che quel gioco metateatrale sfugga di mano anche a loro, che perdano dunque il filo di un discorso, per “eccesso di senso”, che invece funziona meglio laddove riemerge lo schema originale di Goldoni. Nel secondo atto, poi, tutto sembra acquisire maggior nitore: il regista assesta un paio di zampate delle sue. La scena smontata, le macerie definitivamente esplose, fanno arrivare alla gelida e tagliente ripresa del celebre “lazzo della mosca” che il gruppo viviseziona, destruttura, smonta e mostra “nella versione di Marcello Moretti”.

E qui si avverte chiaramente la potenza, la radicale esplosività del lavoro. Forse, in vista della lunga tournée, sarebbe opportuno che Latella e Ponzio rimettessero mano – considerata la forza e la disponibilità dell’intero cast – ad alcune soluzioni sceniche: sfrondando il campo (ad esempio dei troppi finali), calibrando il tiro, cogliendo e rivendicando appieno l’essenza rivoluzionaria di questo progetto.