Oggi è il decennale della strage di Nassyria. Ricordo perfettamente dove ero dieci anni fa, in un paese meraviglioso della montagna trentina. Appena tornato da scuola, fui invitato a mangiare da un collega. Aprimmo la tv, che iniziava a dare le prime notizie. Avemmo subito la sensazione che qualcosa di inaudito e epocale fosse avvenuto, e che da ora in poi quel nome, Nassyria, non sarebbe più stato soltanto quello di una remota città dell’Iraq.
Erano tempi convulsi, da giorni, settimane, mesi, arrivavano notizie di stragi, uccisioni, decapitazioni di soldati, civili, giornalisti occidentali. In quella guerra sbagliata, che oggi si ricorda appena, nella infinita transizione iniziata con l’attentato dell’11 settembre di due anni prima. Il mondo era cambiato, e ne eravamo consapevoli. Il giorno dopo leggemmo la cronaca dell’attentato, quel camion pieno di tritolo che aveva forzato la barra della caserma ed era esploso facendo tutti quei morti. I nomi e i cognomi, i volti, lo strazio delle famiglie, le parole dei politici, l’enorme massa delle emozioni. Poi il rientro delle bare, i funerali di Stato, il presidente Ciampi. Le bandiere a mezz’asta, e il Paese a stringersi intorno ai Carabinieri…
Credo che fu l’ultima volta in cui si sia provato un senso di lutto collettivo, legato al riconoscimento della nostra identità italiana. Eppure, ora, ci si domanda a cosa sia servito quel sacrificio. Probabilmente in un tempo in cui la memoria viene sempre più indebolendosi, in cui tutto pare scorrere come in un fiume eracliteo, stampato per un attimo per poi essere inghiottito nell’oblio della pigrizia inerte dei giorni, Nassyria rimane, come un buco nella memoria. E rimane l’immagine di quel soldato che, intorno alla devastazione, si tiene l’elmetto con la mano. Quella foto rappresenta l’Italia, da allora. Viva l’Italia del 12 Novembre…