Non sempre chi esce sconfitto ha perso.
La menzione d’onore per le primarie del Pd non può non andare a Pippo Civati.
Con le spalle economicamente scoperte rispetto agli avversari, non supportato da apparati o carrozzoni mediatici o da sponsor di peso, a parte Stefano Rodotà, Civati ha saputo imporre la sua presenza nella sfida per la segreteria del Pd grazie alla propria capacità di incarnare un sentimento di disagio diffuso e di diffidenza nei confronti della classe politica senza buttarla in caciara, di presentarsi in una maniera efficace, fresca e ironica e di saper inventare trovate efficaci e fantasiose per compensare lo svantaggio in termini di visibilità mediatica rispetto agli avversari, come la finta intervista a Che tempo che fa o l’uso della rete, di avere una battuta pronta e di saper sfruttare al meglio lo spazio concesso, come nel confronto su Sky da cui è uscito vincitore morale.
Fermamente e coerentemente contrario alle larghe intese, ha saputo mantenere durante la campagna per le primarie la posizione senza scendere al livello degli “sfascisti” del tanto peggio tanto meglio, dei populisti antieuropeisti da stadio, pur essendo estremamente scettico sull’efficacia del rapporto deficit-pil al 3% e convinto della necessità di battere i pugni sui tavoli delle trattative europee, o degli scalmanati lanciatori di insulti al Governo e soprattutto al Presidente della Repubblica.
Ha saputo rappresentare una linea dura ma non ottusa, senza mai esporsi al dubbio di remare contro il Partito Democratico, pur entrando in polemica col partito sull’affaire Cancellieri o facendo della vicenda dei franchi tiratori che impallinarono Prodi nel suo tentativo di scalata al Colle una questione di principio nella direzione della trasparenza contro i giochini del potere al punto da promettere un’indagine sulla vicenda con conseguenze degne del miglior centralismo democratico, qualora fosse stato eletto.
Non ha ceduto alla miopia e alla rigidità ideologica di certa sinistra italiana votata attitudinalmente alla sconfitta, quasi la vittoria fosse una colpa culturale e storica, una sinistra nostalgica e cristallizzata nel tempo, più attenta a un’ortodossia e a una purezza estetica e culturale da salvaguardare che alla capacità di mescolarsi alle persone cogliendone gli umori e le emozioni, e quindi raccogliendone i consensi.
Ha saputo parlare usando un linguaggio chiaro senza mai dare l’impressione di considerare l’elettore un analfabeta cui occorrono dei disegnini per capire i concetti, come aveva fatto Bersani e ora in parte fa Renzi, ma ha anche dimostrato di saper essere tecnico, ma senza i tecnicismi dell’oratoria piatta e anaffettiva di Cuperlo.
Civati ha corso per vincere, ci ha creduto e ha ottenuto un ottimo risultato, reso ancora più pesante e significativo dal risicato distacco dal secondo classificato, l’esponente del politburo dalemiano, dimostrando che la sinistra può essere moderna rimanendo sinistra e che anche in Italia forse è finalmente pronta per quel salto culturale che il crollo delle ideologie del Novecento ha imposto negli altri Paesi europei e per archiviare un passato glorioso ma che è decisamente passato.
La buona notizia della vittoria di Renzi dovrebbe essere quindi letta alla luce della corsa e del piazzamento di Civati, che quella schiacciante vittoria confermano e rafforzano, nella direzione di un rinnovamento non solo anagrafico ed estetico ma anche culturale e comunicativo del Pd. Un Pd che con Civati bilancia la rivoluzione renziana seguendone lo spirito e offrendo la possibilità di una dialettica sana tra centro e sinistra del partito.
Renzi proprio per questo, dovrebbe a nostro avviso proporre Civati per la presidenza.
Buon lavoro, quindi, al nuovo segretario, e buon lavoro alla nuova sinistra Pd.
Grazie alla collaborazione di Francesco Chert