Viviamo un’epoca estremamente complessa. La globalizzazione è stata portatrice di dinamiche che hanno cambiato ogni schema di ragionamento e d’azione a cui le classi dirigenti di ogni Paese si erano abituate fino all’inizio degli anni ’90. Con la moltiplicazione delle relazioni economiche internazionali e la mobilità dei capitali i processi di governance del globo sono andati sempre più evolvendosi in modo complesso. Sono nati nuovi ordinamenti giuridici internazionali legati non solo alle forme classiche delle organizzazioni internazionali, ma alla stipulazione di trattati tesi a favorire gli scambi e a ricorrere a forme di arbitrato internazionale per risolvere le controversie. Le regole si sono internazionalizzate, così come le corti per supportare lo sviluppo di un’economia globale.
I poteri e le responsabilità si sono ampliati esponenzialmente coinvolgendo sempre di più relazioni sovrastatali legate più al rapporto tra Stati che tra Stato sovrano e cittadini. Questo trand internazionale ha fatto si che in Europa si sia andati verso la formazione di una Unione Europea sempre più integrata in termini giuridico-economici. La globalizzazione ha cambiato faccia al potere statuale e politico che oggi risulta sempre più difficile da percepire, sempre più disperso, sempre meno identificabile fisicamente. Così come il diritto, che ne è un’espressione, ha subito una moltiplicazione delle fonti che rendono difficile al cittadino comune capire chi decide cosa, chi influisce e quanto nelle decisioni pubbliche, quale legge deve essere applicata e chi produce quella norma di comportamento.
La globalizzazione ha sostanzialmente prodotto due effetti sulla pelle dei singoli individui: da un lato ne ha aumentato le libertà con una mobilità fisica, dei saperi e delle opportunità lavorative su scala globale sempre maggiore. Dall’altro ha generato smarrimento a causa della velocità con cui l’economia reagisce alle decisioni pubbliche, della moltiplicazione delle fonti del diritto e delle corti, dell’intreccio tra poteri, del gioco di gruppi d’interessi transnazionali sui parlamenti, della mobilità dei lavoratori e del mutamento dei centri di produzione. A questo si è aggiunto il profluvio d’informazioni e comunicazione determinato dall’affermarsi d’internet come strumento di scambio e partecipazione.
Oggi viviamo in un mondo veloce costellato da poteri frammentati e correlati, esposti al fluire continuo del dibattito pubblico in rete che ha dato vita ad una comunicazione politica diversa da ogni altra mai vista prima. In Italia, negli ultimi anni, è possibile rintracciare una tendenza su cui costruire un ragionamento sull’andamento del dibattito pubblico. Perché mentre il mondo cresceva per complicazione nei modi sopra elencati, nel Paese bruciava la febbre della semplificazione. Questo dato è emerso nel linguaggio di diversi leader, a tratti alterni, e più di ogni altro in quello di Silvio Berlusconi e Beppe Grillo. Se il primo è passato da discorsi di maggiore profondità nella prima parte della propria vita politica ad un discorso molto semplificato e brutale nella seconda, il comico genovese ha fin da subito utilizzato un verbo caratterizzato dalla brevità.
In un mondo caratterizzato da forme di comunicazione immediata, complicazione dei rapporti tra poteri (Stati, Sovrastati, relazioni economiche), formazione di un ordinamento giuridico globale, affermazione della moneta unica europea, ampliamento della concorrenza e crisi economico-istituzionale la brevità è divenuta questione di successo o insuccesso politico e, a parer di chi scrive, di deterioramento del discorso pubblico. Con un paio d’esempi la comprensione del fenomeno può risultare più semplice. Prendiamo il tema bancario, che è questione estremamente complessa, il quale è stato oggetto di numerosi attacchi un po’ da ogni parte. Grillo sul punto è brutale “la crisi è colpa delle banche e dei banchieri” che sono “truffatori del cittadino onesto che lavora”. Non c’è nessuna ideologia nè cultura politica di base, ma un’elevazione ad agnello sacrificale del sistema: è colpa loro, ricchi speculatori sulle speranze dei popoli onesti. Non viene detto che è sbagliata la legislazione bancaria o che nel sistema del credito debbano essere fatte delle revisioni o nemmeno che si debbano avere banche più orientate al mercato o al contrario più protette dallo Stato. C’è la semplificazione totale del concetto: processo, colpevole, sentenza, applausi. Non esiste alcuno sforzo di ragionamento richiesto all’ascoltatore, la soluzione è precotta, pronta da mangiare e digerire senza sforzo. I banchieri e i politici amici vanno a braccetto nel frodare il popolo e quindi vanno mandati a casa. Non esiste riflessione sul capitalismo, sul mercato, sul sistema creditizio nè proposta strutturata per risolvere il problema bancario. Sull’Unione Europea tanto Grillo quanto Berlusconi hanno utilizzato lo stesso schema: la crisi? Colpa del Cancelliere tedesco Angela Merkel. Nessuna proposta di modifica dei Trattati, nessuna riflessioni sulle relazioni internazionali, né sulla necessità di riformare il sistema produttivo. Anche qui: fatto. colpevole. sentenza, applausi. Cibo precotto, nessuna digestione del tema, rabbia indirizzata contro l’obiettivo, consenso carpito. Anche Matteo Renzi, leader emergente della sinistra italiana, ricade spesso in questo stereotipo sconfinando nella santificazione della palingenesi generazionale o scandendo in paragoni semplicistici che equiparano il Governo di Firenze al Governo del Paese. E’ un meccanismo che si ripete in quasi tutti i politici italiani, con picchi diversi, e con continuità nel discorso di Grillo. Questo approccio semplificato al discorso pubblico lo chiameremo così: il “pensiero breve”. Al cittadino si consegna un sentimento, un nemico, un colpevole. Un sistema complicatissimo, intriso di responsabilità e meccanismi diluiti diventa facilissimo, immediato e soprattutto incapace di richiedere alcuno sforzo di convincimento del pubblico. Con la rapidità di televisioni ed internet il pensiero breve si rafforza e soprattutto dilaga.
I leader parlano per tweet, massime di qualche parola che forniscono immediatamente una soluzione. Per definire meglio il concetto di “pensiero breve” proviamo a considerarne i tratti salienti per punti:
1 Ad un mondo complesso ed integrato si risponde disaggregando responsabilità e poteri. Si riduce così un problema che tocca una pluralità di soggetti ad un’istituzione, un gruppo, una persona.
2 Il linguaggio si scompone da qualsiasi sforzo di argomentazione e razionalità. E’ immediato, diretto, breve e soprattutto aggressivo. Fa leva sul sentimento e sullo smarrimento per sfociare nell’attacco sferrato al nemico.
3 Non fornisce soluzioni ma individua problemi, responsabili e colpevoli. E’ distruttivo e non costruttivo.
4 Fa generalmente leva sulla paura, sulla rabbia e sul nemico. Esclude la speranza, il riscatto, il coraggio, la ragionevolezza.
Questi possono essere considerati i tratti comuni e politicamente vincenti del “pensiero breve”. Questo è inoltre contagioso perché l’elettore generalmente risponde a chi è maggiormente capace di focalizzarsi su questioni dalle quali scaturiscono coinvolgimento e sentimento. Perché dovrei seguire il ragionamento di qualcuno, con tutti i dubbi e le difficoltà che ne scaturiscono, quando un altro può somministrarmi una pozione già pronta? Il “pensiero breve” vende maggiormente sul mercato politico perché richiede molto meno sforzo, più coinvolgimento e una soluzione immediata. Non importa se questa soluzione è praticabile, esiste o sarà mai raggiunta. Il “pensiero breve” vive di tempi accorciati, il suo fine è il consenso, non il convincimento. Non ha reale interesse a che il piano si realizzi, ma che questo possa essere letto con semplicità. La metafora ideale del pensiero breve è la Coca-Cola Light: bere ciò che si vuole, senza ingrassare. Che in questo caso è: avere soluzioni politiche, ma senza sforzi di analisi e ragionamento. La domanda a cui il “pensiero breve” risponde è chi deve governare e non come riformare o organizzare il potere.
Certo, sarebbe intellettualmente disonesto negare che l’epoca che viviamo necessiti, obtorto collo, della semplificazione dei messaggi politici. E’ inevitabile, è nella natura delle cose, nel tempo della storia, nel senso degli strumenti di cui disponiamo, ma il “pensiero breve” è l’estremismo della semplificazione. Ed è un estremismo che sta trionfando. Un estremismo al quale bisogna opporsi con fermezza perché innesca un meccanismo pericoloso. Sobillare l’opinione pubblica, istigarla alla rabbia, indirizzarla contro un nemico, offrirgli uno sfogo elettorale che si risolve nell’inconcludenza o nell’approssimazione. Ad esempio, convinta l’opinione pubblica che il nemico pubblico numero uno è la casta della politica, il goal è segnato. Non importa poi se l’azione dei rappresentanti eletti si concentri su qualche decina d’euro dei ristoranti della Camera, ma difenda i miliardi di euro lasciati alla mercè della politica con le municipalizzate. Perchè il “pensiero breve” crea miti e li alimenta: “La Germania cattiva”, “i ricchi speculatori”, “i politici corrotti”, “il pubblico non si tocca”, “La Costituzione è sacra” e via dicendo. Il “pensiero breve” è così breve che può permettersi il lusso di cambiare idea nel giro di qualche settimana: ve lo ricordate Grillo che fa la campagna elettorale sulla fine del Porcellum e poi chiede di votare subito con quella legge elettorale? Un maestro del consenso.
Il “pensiero breve” è un cannone da rivolgere contro un bersaglio e da armare con pallottole varie ed intercambiabili. Tutto si semplifica, tutto si adatta, tutto oscilla tra gli strumenti per combattere il nemico e la conquista del consenso. Si dice di voler cambiare tutto, ma si finisce per non cambiare niente che possa erodere quel consenso facile. In conclusione, il “pensiero breve” è la tirannia del consenso sulle idee, del sentimento sul ragionamento, della semplificazione sulla complessità. Una tirannia che tenta di soffocare, come ogni regime autoritario, qualsiasi spazio di competizione per la diversità. Perchè strappare le dinamiche del consenso alla protezione del “pensiero breve” è opera d’impegno eccezionale. Significa riparare le culture politiche senza apparire superati, battersi per l’emersione di una classe intellettuale che alla partenza non può che essere minoritaria ed anticonformista, fondare un discorso pubblico sulla complessità del mondo globale, costruire strutture politiche performanti a livello elettorale. E’ impresa che richiede soprattutto una responsabilità intellettuale continua, un’opera di disvelamento e demistificazione costante contro le semplificazioni estreme del “pensiero breve”. Significa, in definitiva, produrre leadership nuove capaci di opporre alla politica del consenso e al “pensiero breve”, una politica del convincimento e del pensiero argomentato.
Pubblicato per concessione del blog www.lacosablu.it