La City dei TartariDai margini, al centro

ll giorno dopo Natale, nella ricorrenza del primo martire cristiano, Stefano,  siamo andati con le bimbe e mia moglie a visitare Civitella Val di Chiana. Una porta del paese, sulla piazza principal...

ll giorno dopo Natale, nella ricorrenza del primo martire cristiano, Stefano,  siamo andati con le bimbe e mia moglie a visitare Civitella Val di Chiana. Una porta del paese, sulla piazza principale, si apriva su un piccolo museo, dal nome di ‘Stanza della Memoria’. Una gemma dolorosa, un reliquiario della strage del 29 giugno del ’44, quasi 70 anni fa, quando i soldati tedeschi in ritirata, uccisero centinaia di persone, per rappresaglia, paura, follia collettiva. Donne, bambini, sacerdoti, nessuno fu salvo da una furia che si e’ ripetuta ovunque, nelle valli della Val d’Ambra, della Chiana, per poi ripetersi in tutte le tappe della fuga dei tedeschi verso. nord. Abbiamo dovuto spiegare alla nostra figlia maggiore che quell’Europa che per lei e’ uno spazio garantito di liberta’, e’ il risultato di quello shock devastante che fu la seconda guerra mondiale e i trenta e passa anni di cortina di ferro, memorie incise come tagli nell’epidermide del continente, fra sacrari, santuari, ossari e memorie di carneficine.

Ci sono ferite che diventano cicatrici ed ancora fanno male quando si toccano. Fanno molto meno male, pero’, se si vede di cosa siamo stati capaci in Europa. Lettere, abiti con fori di pallottole, fotografie dei caduti, un album con le immagini delle vedove, donne toscane dal volto indurito dal dolore e reso fiero dal cammino della loro vita, sono raccolti nella piccola stanza. Una testimonianza scritta di proprio pugno da un sacerdote recita ‘Anche nei posti piu’ remoti ed isolati, a volte arrivano eventi catastrofici’. Le truppe tedesche, e poi quelle alleate, portarono distruzione e guerra fino a dentro queste terre fertili e laboriose. Appena dopo la pace, qualcuno di quei gloriosi e forti 40enni che presero il comando del paese e dell’Europa decisero che era il tempo di portare nei posti piu’ remoti anche la speranza. Oggi, siamo in quel preciso momento. Dalla crisi sociale, finanziaria, morale, dalle macerie, ne usceremo solo rendendo capillare e condivisa questa onda di cambiamento. Non marginali, ma centrali. Nessuna periferia e’ periferica abbastanza, ormai.

Non c’e’ tempo per rimanere ai margini dell’azione, come comparse su un palco sbilenco, come una compagnia teatrale italiana in terra di Comedie Francaise. Lo spostamento dalla lateralita’ delusa di questi anni, anni di crisi e di silenzi inconcludenti sullo stato delle cose, del paese, delle persone, al centro, nel cuore della questione.

Voglio essere coinvolto, senza esserne travolto, senza esserne sconvolto, da questa onda alta e sfrangiata dai venti contrari, di un accrocchio di generazioni che, ora, a breve, si infrangeranno su queste paludi italiche.

Temporeggiare, non basta piu’, perche’ il gioco del rimando e dell’attesa mantiene le rendite di posizione, quel modo di sopravvivere su margini sempre piu’ esangui, di un passato che, ormai, ci fanno sentire estraneo. Le generazioni dei nostri nonni i quali, dopo la guerra, ricostruirono il paese, devastato senza precedenti dalla rabbia dei conflitti e degli eccidi, non ci appartengono, come lezione ed educazione, di piu’ che a qualsiasi ragazzo del pianeta, per quello che fecero, per quello che imbastirono. Decisero di mettersi al centro.

Noi arriviamo dopo venti e passa anni di estraneita’ all’azione di edulcorata separazione della parola dall’opera, di convincimento che non saremmo mai abbastanza bravi per prenderci quello che ci spetta, ma che fosse meglio vivere ai margini.

Non piu’. Se, dopo nove anni la fine della II Guerra Mondiale, alcuni folli visionari crearono i primi esperimenti di Unione Europea, di collaborazione, di fondamenta di una pace che dura da decenni, allora, legittimamente, noi possiamo riprenderci il posto sotto ai riflettori. Voglio essere parte della scena che si chiama ‘futuro’.

“La linea di 600 persone, che l’altro lunedi circondava due isolati fuori dal 100 Club di Oxford Street, in attesa del Punk Rock Festival, era un’evidenza indiscutibile che una nuova decade del rock stava appena cominciando. Due ragazzi di 18 anni, da Salisbury, erano i primi in coda. ‘Stavamo aspettando a gloria qualcosa con cui identificarci’, mi dice Gareth, saltando su e giu. ‘Non c’e’ stato niente che valesse la pena per anni. Ora, voglio interessarmi ed essere coinvolto in questo mondo nuovo, mi dice”

Caroline Coon – Melody Maker, 1976

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