Andai a sentire Massimo D’Alema alla festa nazionale del Partito democratico, che si è tenuta l’autunno scorso a Genova. Renzi era già in campo. Del suo discorso ricordo (“suo” di D’Alema) solo poche cose: l’invito al sindaco di Firenze a candidarsi per le primarie di coalizione e di lasciar stare l’idea balzana di prendersi il partito, la contrarietà ai sistemi politici bipartitici, la picconatura della cosiddetta “seconda repubblica”.
Tra queste cose quella che più mi infastidì fu la sottolineatura – quasi l’ostentazione, direi – del chiamarsi fuori. Io mi occupo di Europa, di socialismo europeo, di ItalianiEuropei eccetera. Un concetto non nuovo, che D’Alema ha ripetuto in varie occasioni. Una specie di consegna del testimone “ad una nuova generazione”, però espressa col ghigno dell’adulto che lascia il Lego ai bambini perché lui coi Lego ha già giocato.
Quel discorso mi è tornato in mente all’indomani della vittoria di Renzi. Che ha vinto anche contro D’Alema. L’ex presidente del Consiglio – ve lo ricordate? – dichiarò, visibilmente contrariato, che lui aveva altro a cui pensare: “Ho impegni internazionali, lunedì sarò a Teheran”. E poi: “Il mio lavoro di questi anni è fornire idee alla lotta politica europea”. E Renzi – con “azione di stampo fascista” (copyright Piero Sansonetti), pure quello gli toglierà, impedendogli (pare) di presentarsi alle Europee.
Ci stiamo avvicinando alla fine dell’anno. Che è un momento in cui si tirano le fila e si fanno progetti per il futuro. Ebbene: io accuso D’Alema di aver rovinato la sinistra. Non perché non ne ha azzeccata una – come gli imputano i suoi detrattori, che un po’ ne invidiano la caratura e il carisma –, non perché gli è bastato cucirsi al bavero la spilletta di primo premier ex comunista, come Obama è stato il primo presidente americano di colore (con la differenza che lui lo hanno eletto, però), non perché Icarus e la scarpe fatte a mano e diciamo, che sono indubbiamente fregnacce prepolitiche.
Io accuso D’Alema di una colpa politica più grave: la mancanza di coraggio. Una mancanza che ha dissimulato con un tratto caratteriale spigoloso e sferzante. Ma che ti sferzi? Presentati e vinci, combatti e rappresenta la sinistra una buona volta. Non fare sempre quello che lo si nota di più se fa la battuta.
Cuperlo in una vecchia intervista, quando ancora il biondo dei capelli non aveva virato al cenere (ma di quale giovane generazione stiamo parlando?), dichiarò di considerare l’ex presidente del consiglio il miglior dirigente di sinistra in Italia. Ero e sono d’accordo. E proprio di questo lo accuso, di essersi nascosto. Gli imputo – dopo la parentesi del governo con Cossiga – di non essersi mai rifatto sotto con la convinzione e la responsabilità che i leader debbono avere se vogliono continuare a dire la loro. Anche Blair fa conferenze, anche Carter si è ritagliato un ruolo internazionale, ma prima hanno governato per anni e hanno preso un fracco di voti.
Riconosco che in questa posizione ci siano lo sfogo e la delusione contro uno che le sue cose coraggiose le aveva anche abbozzate, come per esempio l’attacco alla linea sindacale di Cofferati, quella sì un danno incalcolabile per la sinistra in Italia, di cui stiamo pagando ancora oggi le conseguenze.
A differenza di Sansonetti però, non ce l’ho con D’Alema perchè ha spianato la strada a Matteo Renzi (che considero un fenomeno più fisico-dinamico che politico e, forse per questo, molto salutare). Ce l’ho con lui perché quella strada ha rinunciato a percorrerla quando doveva. Del resto pure Sansonetti – che lo invita a staccarsi dal Pd – un po’ d’accordo con me lo è: “Credo che abbia il dovere politico e morale di dare vita alla scissione – scrive – ci vuole coraggio, tenacia e forza morale per fare questo (…) ma spesso, in questi venti anni, ha mancato proprio lì, nel coraggio”.
A questo punto, per il bene di tutti, direi sarebbe opportuno continuare così.