La falsa discussione sull’italianità delle aziende alla luce dei dati
Si è discusso molto in questi mesi sull’italianità delle aziende.
Casi come quello di Finmeccanica e Alitalia e la paura per l’americanizzazione della FIAT hanno rilanciato un tema, quello del controllo azionario sulle aziende nazionali, da sempre discusso seguendo logiche bipolari.
Se da un lato molte analisi politiche ed economiche si sono concentrate sui limiti di una struttura di potere economica basata su partecipazioni azionarie incrociate, su patti di sindacato e sul famoso salotto buono di Mediobanca, dall’altro gli organi di stampa e la politica tutta (nonché una parte dell’opinione pubblica) si sono schierati contro la vendita delle aziende all’estero.
La chiusura di settori dell’economia che fanno riferimento ai grandi gruppi economici è un limite per un sistema fortemente integrato in un’area di libero scambio come l’UE. La libertà di movimenti dei capitali, l’unica realizzata quasi interamente fra le tante libertà di movimento sancite dai trattati, mal digerisce un ambiente che si caratterizza per veti e barriere. Molte aziende italiane beneficiano di questa libertà acquisendo partecipazioni importanti all’estero e conquistando quote di mercato rilevanti nel cortile dell’Unione Europea. E questo è un bene per noi.
Come se non bastasse, l’Italia si vanta di essere un paese a vocazione esportatrice ed esportando travalica i confini dell’UE alla ricerca di mercati in tutto il mondo in cui vendere i prodotti targati Made in Italy. Non solo macchinari, vestiti o cibo: la nostra presenza negli altri continenti si manifesta attraverso il controllo di aziende, d’impianti industriali, di punti vendita. E questo è un bene per noi.
E’ inutile nasconderlo: ogni nazione vorrebbe limitare le importazioni (o le intromissioni) e aumentare le esportazioni. La Germania è accusa da molti e da tempo di perseguire una politica di questo tipo: l’idea alla base è che una politica del genere è dannosa nel lungo termine, anche per la Germania.
Un Paese come il nostro ha un bisogno estremo di capitali stranieri. Diverse le ragioni alla base, dall’insufficienza di credito e di capitale interno, all’esigenza di acquisire competente e tecnologie adeguate ai tempi. Potremmo aggiungere una ragione difficile da verificare: i capitali stranieri servono a rompere un sistema di gestione del capitale al limite dell’autoreferenziale, un sistema che vede ai vertici nomi noti che amministrato da lustri le grandi realtà economiche. Un ricambio al vertice rappresenta l’esigenza di rompere schemi collusivi che hanno chiuso, ingessato, compresso il capitale umano e sociale presente nel paese.
Come stanno davvero le cose? L’Italia è un paese contendibile o no? E soprattutto, l’Italia ha imprese che comandano all’estero o no?
Per capirlo si può iniziare il discorso da un dato molto semplice: gli FDI. Questa sigla è l’acronimo di Foreign Direct Investment (Investimenti diretti all’estero). Il Fondo Monetario Internazionale li definisce come gli investimenti di un soggetto residente in un paese che ha un potere d’influenza sul management di un’azienda sita in un altro paese: un investitore diretto è colui che possiede almeno il 10% dei poteri di voto in una società. Per esempio, se fondi una società in un paese straniero o se acquisisci il pacchetto azionario di maggioranza in un’azienda straniera, il capitale investito è registrato come FDI. Ogni anno il FMI registra questo dato per tutti i Paesi, dividendo l’analisi in capitali nazionali verso imprese in altri paese (net acquisition) e in capitali esteri in entrata verso aziende nazionali (net incurrance).
Più è appetibile un mercato in un certo paese, maggiori potranno essere i capitali esteri in entrata. L’appetibilità riguarda diversi aspetti come ad esempio: normativi, fiscali e burocratici per quanto riguarda le condizioni generali; livello di concorrenza, apertura del mercato, tipologia di prodotto per quanto riguarda le condizioni specifiche a un mercato o un’azienda.
Come si può vedere dal seguente grafico, l’andamento dei FDI negli ultimi 7 anni, dal 2005 al 2012, è molto istruttivo.
Spesso questi denari in entrata vanno ad acquisire aziende poco note al pubblico, ridando vita in molti casi a realtà che stavano soffrendo. A volte, questi denari acquisiscono imprese soffocate da mancanza di credito e inefficienze varie. E’ certo, però, che questi flussi vengono per il 90% dall’UE27, quindi dal giardino di casa.
Invece sono generalmente due i gruppi a cui sono ascrivibili per larga parte i capitali in uscita. Primo, imprese, spesso orientate all’export, che vogliono ingrandirsi: investono principalmente in UE27 (il 73% dello stock) e, a livello di settori, prediligono i servizi (71.6%). Il secondo gruppo, in un paese con una distribuzione del reddito e della ricchezza molto diseguale, è composto da quei soggetti che hanno interesse a tutelare la chiusura di mercati poco concorrenziali e scarsamente contendibili nei quali costruiscono la loro fortuna. Dove il primo gruppo crea ricchezza e valore per la propria impresa e per il proprio paese, l’Italia; il secondo redistribuisce verso l’alto il reddito e la ricchezza interna per poi investire in altri paese le proprie rendite. Sarebbe bello capire quanti dei € 402 MLD d’investimenti italiani all’estero (a tanto ammontano gli investimenti a fine 2011) appartengono al secondo gruppo, per poi eventualmente chiedergli: ma “l’Italianità” non sarà mica un pretesto per difendere un vostro specifico interessa?
(continua)