E poi c’è quel momento, in cui l’attore, un grande attore, “recita la morte”. Non deve essere facile. Soprattutto se l’attore in questione ha 93 anni, si chiama Gianrico Tedeschi e, tanto per dirne una, nel 1952 era nel cast del memorabile allestimento de “La Locandiera” con la regia di Luchino Visconti. Tedeschi è baldanzoso, in scena, e divertente. È protagonista, con l’ottimo Alberto Onofrietti – che gli tiene testa! – e con la brava Marianella Laszlo, di una commedia ben fatta: piacevolissima, divertente, commovente.
Si tratta di “Farà Giorno”, testo scritto a quattro felici mani da Rosa A. Menduni e Roberto De Giorgi e diretto, con garbo e affetto, da Piero Maccarinelli, visto in prima nazionale alla Sala Umberto di Roma e ora in scena a Milano.
Si tratta, in gergo, di quella che si definisce una “novità italiana”, ossia di una produzione di un testo originale, e nuovo, scritto da autori italiani: banalità, direte voi. E invece no: perché nei teatroni italiani (pubblici o privati che siano) vedere una “novità italiana” è, purtroppo, piuttosto raro. Nel belpaese vantiamo autori eccellenti e ottimi drammaturghi (nonché fantastici sceneggiatori), che magari hanno successo in giro per l’Europa ma che stentano ad affacciarsi alle ribalte degli Stabili. Ben ha fatto, allora Artisti Riuniti ad accollarsi l’onere e l’onore di produrre questo allestimento. Perché è un piacere speciale andare a teatro per capire come parla il nostro tempo, per sentire e vedere raccontato un pezzo di mondo che spesso è, o può essere, la nostra biografia. Veder condensate, in quelle due o tre ore, un pezzo della nostra storia.
Così è, ad esempio, per “Farà giorno”, che è una specie di testo a tesi, di esperimento antropo-sociologico fatto dramma: metti in una stanza un vecchio partigiano comunista e eroe, un giovane teppista romano fascistello e una donna, figlia del partigiano, ex terrorista divenuta medico “alla emergency”.
Insomma, tre visioni dell’Italia, tre linguaggi diversi, tre attitudini alla vita e alla morte. È un laboratorio, un osservare in vitro le reazioni e le azioni dei protagonisti, tra ironia, cinismo, violenza trattenuta, nostalgia, sogni perduti, amarezze. È un mettere a confronto parole diverse, mondi apparentemente incomunicabili – il dialetto povero dell’uno, la sapienza dell’altro. È un fare i conti con il Paese come avrebbe potuto essere dopo la lotta partigiana e come è oggi. È pensare (o sperare) che qualcosa ancora possa cambiare: se, insomma, la “nuttata” passerà e finalmente “farà giorno”, oppure se la realtà – così squallida, violenta, amaramente priva di ogni prospettiva di miglioramento – sarà immutabile di qui al futuro. Certo, a fronte della grinta umana e umanitaria (con un Tedeschi che tanto ricorda il volto caro di Sandro Pertini) di una generazione che ha lottato per i diritti, oggi c’è il radicalismo nero di tanti giovani, “indecisi a tutto”. E il fallimento conclamato delle istanze “rivoluzionarie” – violente, armate, folli – che pure si trascinano ottuse nel presente, non aiuta. Di fatto, “Farà giorno” apre a qualche consolatoria speranza, all’illusione che, scontati i nostri peccati così come il giovane teppistello affronta il carcere, qualcosa cambierà. Ci sono ancora possibilità, insomma, se favorite dall’ascolto, dal confronto, dalla sana dialettica con l’Altro.
Lo spettacolo, apparentemente semplice, si basa dunque su quelle “belle cose di una volta”: bravi attori, un testo solido e una regia saggia, che non vuole strafare, ma si rallegra di favorire l’efficacia degli altri elementi in gioco. E allora lo spettatore si perde nel godere dei dettagli interpretativi di Tedeschi: le battute, il movimento delle mani, le facce, gli sguardi, i toni, i mezzitoni, la vivacità nella immobilità.
Poi si gode la vicenda, la storia, con il suo ritmo divertente e avvolgente: e se pure, dopo due battute, sai già dove andrà a finire, poco importa. Perché, a un certo punto, arriva la morte: un silenzio solo un poco più lungo, quattro carte da gioco che cadono sbadatamente a terra, un capo che si china all’indietro. E quanta vita c’è, in quella morte. In questo teatro “all’antica italiana”, in un teatro com’era, ed è ancora, grazie a questi guitti sornioni, sapienti, umili e potentissimi. Così nel pubblico, tra gli applausi, non sono pochi quelli che si asciugano, discretamente, le lacrime.