Che poi, mentre mi spellavo le mani ad applaudire, mi chiedevo: ma se questo testo l’avessero firmato, che so, Spregelburd o Edward Bond, non sarebbe in scena tipo all’Eliseo o all’Argentina o al Piccolo di Milano per un mese?
E invece, siccome l’hanno scritto e interpretato due spettacolari attori, come Lino Musella e Paolo Mazzarelli, siamo arrivati al Quarticciolo, per cogliere la seconda e ultima delle due date a loro disposizione. Per fortuna il Teatro Biblioteca Quarticciolo è un teatrino coccolo, accogliente, simpatico, con le signore del quartiere in prima fila a commentare ad alta voce. E per fortuna che il Teatro Stabile delle Marche risponde alla crisi diffusa della stabilità italiana puntando su, e producendo, spettacoli come questo.
Stiamo parlando, l’avrete capito, di “La società”, commedia aspra, coinvolgente, divertente. Diviso in tre quadri – ma vorrei dire “atti”, alla De Filippo – la commedia racconta sostanzialmente la storia di tre ragazzi alle prese con la vita che si appalesa loro in forma di “locale”. Si trovano, infatti, per i casi del destino, a gestire un locale, comprato dallo zio-pigmaglione di uno di loro. Lo rimettono in piedi dalle ceneri in cui l’hanno trovato, distrutto com’era da un incendio, e poi lo fanno fruttare. Ma la morte dello zio-padre li costringe a fare i conti, con se stessi e con una “badante” rumena – giovane e bella – che dello zio si è pure innamorata, ma che, si scoprirà, non lesina il suo cuore d’oro anche ad altri.
La scena si apre nella saletta antistante il letto d’ospedale del fantomatico zio. Ci sono Ugo, Vittorio, Ljuba che attendono il nipote Salvo. Lentamente si sveleranno le dinamiche tra loro, i rapporti di forza e sudditanza, le mediazioni possibili, i fatti e le rivendicazioni di ciascuno. Perché poi il locale, dopo una gestione utopica ma fallimentare di Salvo, comincia a rendere, a essere di moda, grazie alle idee pragmatiche di Vittorio.
Ma la trama, come è naturale, si complica. Non stiamo qui a raccontarla. Di fatto però “La società” è uno spettacolo incisivo, divertente, disturbante. Perché ogni personaggio, declinandosi nelle sue contraddizioni, si arricchisce di sfumature e di valenze simboliche. Qui sono in atto scontri a più livelli: da un lato l’eterno, irrisolto, scontro generazionale. Lo zio-padre tiene le fila della crescita-non-crescita dei tre ormai adulti ma ancora emotivamente succubi di fronte all’autorità. E non è un caso che il “vecchio” zio si prenderà anche l’amore della giovane rumena, mettendosi in aspra – seppur velata – competizione con i “giovani”. E, dall’altro lato, sono esplicitati, dipanati metaforicamente, scontri politico-ideologici che sono paradigma della nostra società, della nostra Italia d’oggi. Ecco, allora, i tre estremi di un triangolo che potrebbe diventare addirittura partitico, anche se non lo è: c’è il pragmatico capitalista; c’è l’idealista duro e puro; e c’è l’eterno democristiano mediatore. A loro si aggiunge l’immigrata, lo sguardo nuovo sul mondo, che, alla fine, se ne andrà disgustata dallo sfinente scontro dei tre.
“La società” è un “C’eravamo tanto amati” d’oggi, è una storia che parla la lingua disperata degli ideali calpestati, della fatica di sopravvivere, dell’opportunismo e delle convenienze, della sconfitta e della rassegnazione. Si ride, certo, e ci si commuove: la scrittura è di millimetrica precisione e sa come colpire lo spettatore. È, insomma, un’ottima commedia d’attori che sanno il teatro: ed è questo l’elemento che mi interessa adesso. Scritta da attori, interpretata da fior d’attori.
Intanto Lino Musella, che fa il mediatore Ugo, con quel suo modo antico di portare la possente voce, con quei gesti controllati – come si aggiusta il maglioncino – con quegli sguardi, quella “dignità” sfrontata e umiliata che mi faceva pensare, non solo per il nome del personaggio, al migliore Tognazzi o, meglio ancora, a Peppino in un ruolo drammatico. Poi il superbo Paolo Mazzarelli, bello come il sole, nevrotico e astratto, tutto gestualità contemporanea e mitologia: convincente e condivisibile nel ruolo dell’imprenditore Vittorio. Accanto a loro la mimetica, sorprendente, commovente Laura Graziosi, rumena che rumena non è. E infine Fabio Monti, inizialmente insopportabile (volutamente, ovvio) nei panni del sinistroso Salvo, che poi, a partire da un omaggio cantato al Modugno siciliano, è capace di tramutarsi, in corso d’opera, in una struggente figura emblematica: “i fantasmi dei sogni infranti” di cui parla il testo, sono tutti in questo personaggio. Che se ne fa carico, portando in sé il fallimento di una generazione. Tutto brucia, nel locale, ancora e di nuovo: crolla, quella società, sta crollando, e non resteranno che ceneri. Forse qualcun altro avrà la forza di riaprire quel locale, o forse – come sono più propenso a pensare – no.