Succede ogni volta che metto piede nel padiglione di una fiera, succede perché sono vagamente agorafobico e per un’esigua percentuale claustrofobico, succede perché le folle mi spaventano con quel modo in cui si muovono tutte assieme, compatte che sembra che non si possano scalfire e non resta che andare con loro. Lungo i corridoi fieristici già così colorati a poco meno di venti giorni da Natale. Succede che mi cominci a mancare il fiato e che mi perda, ancora prima di iniziare a vagare per il padiglione. Mi perdo perché non riconosco niente, perché tutto è uguale. Non che uno stand sia uguale all’altro ma tutti gli stand sono esattamente uguali a se stessi l’anno prima, e questo mi scombussola, mi confonde, mi deprime a dirla tutta.
A Più Libri, Più Liberi, il salone della piccola e media editoria di Roma, ci vado per affetto. Perché tante di quelle persone che popolano gli stand, con quegli sguardi stanchi e sfatti soprattutto la domenica mattina, che passano le loro ore migliori a guardare oltre la spalla dei loro interlocutori, li considero amici. Più amici di quelli del Salone Internazionale di Torino, che a dirla tutta per la maggior parte sono proprio gli stessi, ma un po’ diversi. li considero amici e li chiamo per nome. Con molti di loro ho bevuto e ho recensito i libri di quasi tutti – gli amici, non tutti tutti – senza preoccuparmi del fatto che fossero amici e quindi dicendo cosa ne pensavo. Alcuni lo hanno apprezzato, con altri non parlo da molto tempo. Ci vado per affetto, però mi deprime come tutte le altre fiere e gli altri saloni che mi rendono agorafobico.
Quest’anno ho fatto un simbolico passo indietro, per darmi la distanza necessaria a vedere la fiera con oggettività e a capire da dove venisse quella nausea profonda che da qualche tempo sento alla base dello stomaco quando mi affaccio sulle file caotiche di libri esposti. Mi sono accorto che il problema è che non cambia niente. Chiunque come me giri per gli stand nella speranza di essere fulminato sulla via di Damasco, è destinato a rimanere deluso. Da un anno all’altro nei cataloghi dei piccoli editori il ricambio è scarso o nullo, sono tutti appostati su un maledetto piano inclinato e stanno rotolando verso un baratro difficile da evitare, rallentati solo dal proprio peso specifico. Si salva chi è stato in grado di unire una comunicazione compatta a titoli e autori d’eccellenza, il tutto ben spolverato di un supporto economico più che solido, e sono pochi e arcinoti (serve che nomini minimum fax, La Nuova Frontiera, e/o, Iperborea, Marcos y Marcos, Transeuropa, Hacca, in parte e solo in parte ISBN? Serve? Perché se serve lo faccio). Gli altri hanno l’aria di andare alla cieca, di procedere a tentoni e di condividere con me la nausea agorafobica.
Ogni tanto il vento della saggezza soffia sugli scaffali impoveriti dai titoli triti e ritriti, dalle copertine di plastica rifrangente e dai caratteri scombinati, per suggerire l’idea di ripresa. E quasi sempre assume la forma di consorzio, unificazione, fronte comune. Ma c’è un concetto che andrebbe mandato a mente ogni volta che l’idea di una riuscita comune si fa viva alla base del cranio: quasi quattrocento editori indipendienti in Italia sono troppi. Non possono sopravvivere tutti, non tutti possono avere accesso allo stesso carnet di opportunità. Questo per logica, matematica, estrema onestà.
Tradotto in sintesi, significa che alla base della mia nausea sta la convinzione che le leggi di natura dovrebbero intervenire a ridurre il numero di espositori, per il semplice assunto che, come solo pochi sono destinati a scrivere i libri – e nessuno dovrebbe valutare il proprio destino da solo – ancora meno dovrebbero essere destinati a pubblicarne. Altrimenti, va da sé, le cose si fanno un tantino complicate. Una sfoltita alla base non sarebbe utile solo a me e ai miei problemi di labirintite patologica, ma anche a chi è perso nel labirinto del non saper più che pesci pigliare e soffocato dall’ombra scura del macero. Oltre che, naturalmente, a quelle orde di scrittori in pectore che, salvo il sentimento puro e una convinzione commovente, non hanno molto da dare al mondo. Una buona dose di stranezza e disfunzioni sociali, forse, ma c’è Masterpiece per questo, no?