Si fanno chiamare “Belle Bandiere”: sono Elena Bucci e Marco Sgrosso.
Attori che conosco da anni, da quando lavoravano con Leo De Berardinis: erano cardini nell’indimenticabile “all star” che costituiva la compagnia del grande Leo. Dopo quella meravigliosa esperienza, hanno intrecciato il loro percorso con altri due formidabili interpreti, provenienti dallo stesso gruppo, Enzo Vetrano e Stefano Randisi. Poi hanno continuato il loro viaggio teatrale, affrontando intelligentemente classici e contemporanei, e declinando il loro fare teatro anche in azioni pedagogiche, ad esempio al Teatro Stabile di Brescia, dove il duo ha trovato una casa produttiva e ospitale. Le “Belle Bandiere” hanno da poco fatto tappa a Roma, al teatro Argot, per presentare due spettacoli, due monologhi dalla cifra comune e diversissima al tempo stesso.
Se Elena Bucci, da straordinaria attrice qual è, rendeva omaggio – con intensità e passione – all’arte della Divina Eleonora Duse; per lo spettacolo cui abbiamo assistito, Marco Sgrosso, dal canto suo, si è calato in un aspro testo di Herbert Achternbusch, Ella.
Si tratta di un monologo difficile, teso, dolorosamente fastidioso. Achternbusch ha una scrittura al limite, che affronta derive sentimentali e umane di vite frastagliate, sottoproletari di mondi debosciati, spesso ad alto tasso alcolico. Bavarese di nascita, Achternbusch spinge verso ritratti (specie femminili) che sono al tempo stesso mirabile e implacabile condanna sociale, polemiche virulente contro la condizione umana, furiosi flussi di coscienza che travalicano nel surreale o nel grottesco, pure restando incollati alla più bieca realtà. Così in Ella, ci si trova di fronte al delirio di una povera matta, vittima di guerra, di stupri e di segregazioni manicomiali violente. Quello che esplode, in questo breve racconto apologo, è la solitudine amara di chi è al margine, e non ha coscienza di sé o di classe. Il gioco narrativo è perennemente sul filo di un flusso verbale incontinente, sospeso tra immaginazione e verità, tra ricordo e menzogna, tra autoindulgenza e tragica consapevolezza. Anche perché il personaggio di Ella in realtà è Josef, il figlio: un uomo per questa che, come lo stesso autore suggerì nelle note di accompagnamento, è una sorta di “continuazione di Psycho di Hitchcock”.
Il rimando alla madre morta, dunque, è il tema sotteso, il dolore nascosto di questo quadro teatrale: qui si gioca la deriva straniante, il grottesco maniacale del personaggio, quell’essere doppio e triplo, avviluppato in una spirale di dubbi e violenze.
Era il 1978, quando Klaus Peymann, allora direttore del teatro di Stoccarda, invitava Herbert Achternbusch a fornirgli un testo. La scelta cadde su Ella, e da allora questo monologo è stato oggetto e soggetto di interpretazioni sempre legate dal segno disturbante di quel verismo amaro e impossibile, cui Marco Sgrosso, con la sua sapienza interpretativa, dà ulteriore spessore. Il corpo pronto a flettersi in pose animalesche – la maggior parte del tempo è piegato sulle ginocchia – oppure a ergersi in modo potente; il volto che si muta in maschere espressioniste; la voce che si modula dallo stridio di un falsetto annunciato a toni gravi e minacciosi. Vi è, in lui, un giocare sapientemente sui moduli della marionetta biomeccanica, della fisicità plastica della Commedia dell’Arte, sempre tenendo però diritta la barra di un teatro d’attore-interprete che rispetta e svela al meglio il testo, rendendolo ancora più allusivo, o forse assolutamente illusivo.
Ella-Josef, in questa edizione, si fa angioletto da presepe, pupazzetto mezzo rotto, figurina casta e satanica al tempo stesso; assume anche sonorità e sfumature nostre, della provincia italiana, sporca il linguaggio di una forza terrigna ulteriore, capace di raccordarsi con quella Baviera cara all’Autore. Non ci sono speranze o vie d’uscita, nel pollaio in cui Achternbusch ha chiuso la sua Ella. Per Sgrosso addirittura, il finale al sapore di cianuro del testo si muta in un sotterrarsi simbolico, in un chiudersi nella botola sotto il pavimento di quello stesso pollaio-prigione: si spegne così il delirio, la vita, in una morte che è finalmente silenzio.