L’agente MormoraUn avanzato Stato di decomposizione

Ho trascorso una gradevole settimana a Sud, la mia terra: quella in cui sono nato. Mi sono a lungo chiesto se questi appunti avessero dignità di condivisione, evidentemente non ce l’hanno, ma fors...

Ho trascorso una gradevole settimana a Sud, la mia terra: quella in cui sono nato. Mi sono a lungo chiesto se questi appunti avessero dignità di condivisione, evidentemente non ce l’hanno, ma forse stimolano la consapevolezza. Ché questa non è una riflessione sulla fuga né una chiamata alla diserzione. É un tagliando, nella migliore delle ipotesi.

Quindi ricominciamo da zero: ero qui in un luogo qualunque delle Puglie (uno dei più gettonati tra i vacanzieri di tendenza, peraltro) ed ho acceso le orecchie. Ho parlato pochissimo in questi giorni, ho dato nuova linfa al mio autismo – una dote che avevo a lungo sottovalutato. Non ho parlato perché avevo da ascoltare. Ascoltare lo facciamo poco, in genere. Perché ci frega l’indifferenza e una insana certezza che le parole dentro di noi siano più preziose di quelle all’esterno di noi. Dicevamo: ho sentito. Cambia qualcosa dall’ascoltare? Anche le réclame di cosmetici o cremine detergenti dicono sempre: senti che bell’unguento (unguento non lo dicono, ma spero di aver reso l’idea). Ricapitolando: con le orecchie si ascolta, con la pelle si sente. Ora provate a invertire queste azioni e gli strumenti con cui le pratichiamo. L’esercizio è replicabile: potete origliare quando e dove vi capita. Mi sono posto la sfida di sentire – quasi con metodo scientifico. Mi ha ispirato un pezzo di tanti anni fa comparso su Internazionale, diceva: «ascoltate i discorsi delle città». Questo ho fatto. Ho dato per buono tutto ciò che argomentava Paul Graham – ha studiato Belle Arti a Firenze e ha fatto i soldi con le startup innovative in America. In sintesi estrema, costui afferma che i luoghi in cui cresciamo ci comunicano una ambizione «contestuale», dai discorsi che intuiamo dietro la tenda del vicino apprendiamo un anelito. Informiamo il nostro divenire all’essere della porta accanto. Niente di nuovo, certo. Ma non mi era mai capitato di leggerlo così placidamente, forse. Qui dovrebbe esserci ancora il pezzo, ogni volta che mi son trovato davanti ad un bivio ho provato a rileggerlo. Non che mi abbia offerto una profezia, ovvio, ma mi ha regalato delle preziose incertezze: e di questo gli sono grato.

Ho sentito pochi discorsi e molti rantoli, in questa carcassa di civiltà addentata dai parassiti. Ho visto i miei colleghi praticanti regalare il loro lavoro, ostaggio di avvocati sedicenti prestigiosi – suppongo che il metro della rinomanza sia lo zerbino griffato all’ingresso dello studio, perché i computer, per esempio, il praticante è tenuto a portarselo da casa. Ora voi immaginate di prestare la vostra opera, sotto il giogo di un ordine professionale compiacente e sozzo di ipocrisia, for free per due anni e mezzo, nella migliore delle ipotesi. Se per reazione vi mettete a coltivare marijuana in balcone e la smerciate ai concerti rauchi dei Sud Sound System, non sarò io a biasimarvi. Esiste un sottoproletariato cui abbiamo per anni raccontato che “laureato è bello” ed ora si ritrova ad assaporare la meschinità della schiavitù intellettuale, in tailleur. Un esercito di mercenari lesti sulle scale delle cancellerie, cui è stato rapito il sogno e stuprata la vocazione. Ne è nato un ecosistema talmente perfetto, nella sua idiozia, da sembrare intoccabile. Foriero di obiezioni come «certo, non mi pagano, ma dopo due anni se porto un mio cliente mi tocca una specie di percentuale forfettaria». Cioè questo meridionalissimo ordine degli avvocati ha fatto proprio il ricatto tipico delle catene di rappresentanti delle aspirapolveri (non vi annoio, sapete perfettamente come funzioni oppure riguardate ‘Tutta La Vita Davanti’ di Virzì). Ora, nella scala sociale dei mestieri abbozzata alle medie, noi spocchiosi giovinetti si era capito che l’avvocato veniva esattamente un gradino sotto il medico, a sua volta secondo solo al prete. Uccidono più le intuizioni che le guerre batteriologiche, a Mezzogiorno.

Di questo vi rendo conto, perché è da giorni che non faccio altro che pensarci. Questo Sud è un luogo in cui nulla accade, il mausoleo delle potenzialità assassinate. Accade l’inerzia, motore ignobile di una rugginosa struttura sociale di stampo vassallatico in cui l’ascesa non è contemplata e la discesa è viceversa incoraggiata. Un posto baciato dal sole, cullato dal mare, agitato dal vento. E imbarbarito dal tutto il resto. Una terra fertile in cui le gravidanze adolescenziali sono il rosario di bestemmie che si snocciola sui mattoni lucidi delle piazze tirate a nuovo (assieme ai tradimenti dei mariti annoiati, patriarchi di famiglie abominevoli tenute in piedi col vinavil del «eh, ma coi figli come facciamo? Dobbiamo restare uniti», per condividere il tetto, gli sgravi fiscali, le pensioni di reversibilità e il disastro casalingo). Un appello ai docenti delle superiori, a tal proposito. Fa nulla se non ci arrivate alla Seconda Guerra Mondiale, tanto c’è wikipedia, dedicate invece qualche ora in più all’educazione sessuale. Dovreste avere ormai capito come funzionano certe cose. Oppure invitate degli esperti, magari non quelli dell’ASL, me li ricordo ancora: per raccontare la masturbazione ci propinarono il video di un flipper che andava in tilt. Il linguaggio di certe presentazioni era terribilmente allegorico – impollinare, tipo – o fottutamente imbarazzato: hai presente il condom? E una preghiera ai genitori, chiamati ad un compito non facile: vero, nessuno vi ha insegnato nulla e da autodidatti non ve la cavate granché. Ma evitate di appaltare l’educazione dei vostri figli ad istituzioni sbriciolate: le maestre, la parrocchia, la sala giochi, la combriccola. Prendetevi delle responsabilità, fa pure bene alla salute.

Con le antenne accese mi sono fatto magnetofono di tante conversazioni. Ed ho respirato una tristezza contro cui ho dovuto combattere, per evitare io stesso di esserne contagiato. Due parole per evitare fraintendimenti, o anche: odiatemi, ma con parsimonia. Io non voglio fare quello di Milano, che torna per le vacanze e parla con l’accento del Giambellino – se solo un nativo dell’hinterland gallipolino sapesse che forma abbia la periferia della capitale morale. Non sono di quelli che, per ostentare una malintesa forma di supremazia alcolica, ordinano lo Spritz in un’osteria del Capo di Leuca. Non sono uno sradicato, per carità: lo conoscete perfettamente un tipo di questa foggia – è uno stereotipo al quadrato, una plastificazione della caricatura. Di conseguenza, tutto l’armamentario dogmatico dell’emigrazione non mi va a genio. Il bello dei confini, se mai sono esistiti, è che li si può superare (tecnicamente, un volo Milano – East Cost dura esattamente quanto un InterCity diretto Milano – Lecce. Dodici ore di passione. Se prenotate in anticipo, mangiare un hamburger a Manhattan costa circa otto volte che ordinare un caffè in ghiaccio con latte di mandorla in piazza Sant’Oronzo). Sono convinto che, in mondo perfetto, ciascuno possa trovare il preciso luogo delle proprie ambizioni. Per questo, con somma gratitudine alle compagnie aeree low cost, sia sempre benedetta la libera circolazione dei miei coetanei, quand’anche fosse coronata da un ritorno alla casella di partenza. Non prendetemi dunque per radical chic coi soldi di papà. Nel senso che: certo, finora per mantenermi ho usato sopratutto i suoi, ma comincio volentieri a fare da me. Fatemi l’in bocca al lupo.

O mandatemi a cagare. Ma fate in modo che non sia il solo ad andarci. Esistono pattuglie di classe dominante impotente e sclerotizzata, che si frequentano dai tempi del Pentapartito, dissolvono loghi e – con la stessa disinvoltura – inaugurano comitati elettorali, si scambiano gli auguri per strada insistendo sulle onorificenze da strapazzo: “assessore”, “presidente”, “commendatore”. Con il terrore sui volti demoliti dalla sudditanza e la nostalgia dei tempi in cui ci si garantiva un certo appeasement con l’ammortizzazione sociale della raccomandazione: ora, il lavoro essendo una risorsa scarsissima, nulla più obbedisce alle vecchie leggi della politica clientelare. Liberatevi anche di questo cupio dissolvi congenito e rinunciate all’allegria di naufragi che vi conserva ignavi davanti alle metamorfosi delle filiali degli istituti di credito che lasciano il posto ai centri estetici, alle botteghe artigiane tramutate in ricevitorie. Reagite a questa nuova urbanistica coi perimetri fatti di effimero, dove il centro coincide con la periferia e l’emarginazione è di casa ovunque. Riappropriatevi di una condivisione casareccia, di un’avarizia di benessere solido. «Un giorno questa terra sarà bellissima»? Questa penisola con un accento netto, zeppo di sillabe dure, meno mellifuo del parente barese, impastato di dominazioni ed assalti via mare, contaminato di mediterraneo e popoli, rischia di maciullarsi lanima, a forza di giocare al ribasso. Questo dialetto tosto rischia di perdere molte delle sue aspirazioni. Ed io di una terra senza aspirazioni non so proprio cosa farmene.
Soundtracks:

L’orso – Baci dalla provincia 
http://youtu.be/d8d5mXqQ5Yk

Mino De Santis Radical Chic 
http://youtu.be/bLqZL6QPm4A

Virginiana Miller – La carezza del Papa 
http://youtu.be/DcZLabdOutQ 

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