CineteatroraA testa in giù nel pantano delle madri

  C’è un’infermità brutale che detta legge in molte scritture drammaturgiche: l’espiazione delle madri per accuse fondate sulla loro impraticabile resistenza al dolore o sull’annullamento del ruol...

C’è un’infermità brutale che detta legge in molte scritture drammaturgiche: l’espiazione delle madri per accuse fondate sulla loro impraticabile resistenza al dolore o sull’annullamento del ruolo assegnato dagli archetipi e dalle tradizioni. Dalla furia di Medea alla colpevolezza insidiosa delle cattive madri dipinte da Segantini, che attraverso un fusto d’albero nodoso le soffoca nella morsa dei rami, è compreso tutto il carico e il rumore di un’etichetta di isteria folle trasmessa nel sangue delle generazioni. Una tara ereditaria che da Zola si insinua nel linguaggio nel momento stesso in cui è introvabile quel vocabolo che riferisce della perdita di una madre per il suicidio del proprio figlio.

Nel pieno di una vendetta alla miseria dell’infelicità la peccatrice è rimasta a fissare il corpo penzolante da un ramo della propria creatura. Maddalena e Maria sono i loro nomi e chi ne scrive è Domenico Pugliares, ben consapevole di seminare richiami biblici o danteschi quando fa recitare prima a Dio e poi al Diavolo un’arringa che esordisce e chiosa con le terzine della Commedia. Il pantano, fuoco del titolo e refrain interno alle battute, è uno scenario da parco-giochi disabitato e avvolto nei fumi di un aldilà periferico, dove la strana coppia di Bene e Male dai guanti bianchi e le canotte metropolitane si sfida a convincere la rea Maddalena di aver commesso oppure no un crimine di «inumana indolenza, ignavia e accidia».

Maddalena ha saputo soltanto assistere senza muovere un passo, il suo corpo è deformato dai vortici della mente che l’ha allontanata dall’ordinario della famiglia e non le ha concesso di prevenire l’impiccagione della piccola Maria, corpo di reato di cui il processo ultraterreno è una cornice invasa anche da buona e cattiva coscienza. Ecco che allora l’ironia divina resa dalla corporeità multiforme di Gianfranco Berardi sfida a duello grottesco il recitato nasale di un essere diabolico, altrettanto fluviale nelle mosse e linguaggio di Daniele Timpano. Ma quel che resta nel mezzo, che dovrebbe dare la spinta tragica e gettarsi in faccia al pubblico pagante e ignaro, è l’umore alieno di una Maddalena madre meschina tradotta raramente in gesti e intenzioni convincenti da Cecilia Vecchio. Tra questi, l’atto compulsivo di frugare in una borsa per pescare bocconi di pane e rimpinzarsi fino a soffocare quando fanno il loro ingresso anche Buona e Cattiva coscienza.

Renato Sarti sembra imbarcarsi su questa nave di sdoppiamenti e colpe ataviche senza riuscire fino in fondo a restituire nella cifra degli interpreti e, prima ancora, nella scelta drammaturgica, che invoca troppo senza sviluppi e rotture, generosità e giustificazioni sceniche che gli sono proprie e apprezzabili, invece, in altre prove di illuminante misura, testimonianza e valore come Muri e Goli Otok.

Tra la frenesia verbale di una cattiva coscienza che fa il verso alla retorica finta senza differenziarsi in fondo dal maligno del Diavolo, tra i lazzi a volte coinvolgenti altre fuorvianti di un Dio che ha la responsabilità di trattare il libero arbitrio e la sostanziale tenuta monocorde della protagonista, motivata in parte dalla scrittura, che ne evoca l’immobilità clinica e il riverbero storico di Pilato, si resta in qualche modo attoniti. O meglio, si ricerca un avanzamento da un grottesco che sfora, in primis nel testo di Pugliares che chiama in causa la lentezza della lumaca e l’esposizione fragile dell’uomo, l’ossessione punita per i sogni e la fissità materna paragonata a un cuore plastificato di bambola.

Viene infine da chiedersi se non esistesse un’opzione diversa da quella di far indossare a Buona e Cattiva coscienza tute da pupazzi di troppo evidente richiamo televisivo. Il loro universo, quello picchiettato nel malessere di Maddalena, è sì lo scherno che riflette l’inabilità e l’umano in bilico senza soluzione, ma come per le terzine dantesche e la minaccia dello Stige, sarebbe stato forse più necessario insistere sulle caratterizzazioni e sull’interpretazione per meglio introdurre la presenza drammaturgica di due personaggi, appunto il buono e il cattivo, non identici a Dio e al Diavolo.

Restano a ogni modo efficaci l’azione dissacrante che vede il cattivo consigliere spezzare il pane di Maddalena come fosse l’anima restituita da Mefistofele a Faust e la resa ultima della donna a testa in giù, masticando a più non posso, a ribadire il tonfo nel fango della palude di quel masso amputato della propria carne da una doppia fine violenta.

Fino al 12 gennaio 2014 Piccolo Teatro Grassi Milano

Il Pantano

di Domenico Pugliares

regia e consulenza alla drammaturgia Renato Sarti

con Gianfranco Berardi, Daniele Timpano e Cecilia Vecchio

scene e costumi Carlo Sala, musiche Carlo Boccadoro, luci Claudio De Pace

Produzione Teatro della Cooperativa
con il sostegno di Regione Lombardia – Progetto NEXT 2013

un ringraziamento a Teatro dell’Elfo, Teatribù, Argomm Teatro e Teatro Arca