Negli ultimi due giorni la rete dei social network italiani è stata invasa dai tre video realizzati da Zero, che mi sembra qui assolutamente superfluo descrivere, visto che ormai – tranne mia nonna e Napolitano – credo che li abbiate visti tutti. In coda a questa invasione sono usciti alcuni commenti particolarmente interessanti, uno tra tutti è quello scritto da Niccolò Contessa de I Cani, pubblicato dal blog minima&moralia.
L’articolo di Contessa ha il merito di cercare di guardare al problema sollevato dai video senza inutili veli di retorica ad appannarne la lucidità, ma contiene anche delle storture.
Le conclusioni di Contessa sono ampiamente condivisibili e centrano il problema: il disimpegno politico, la disillusione e il controproducente individualismo da “tutti contro tutti” della nostra generazione. Ma sono figlie di un ragionamento sbagliato, che parte da presupposti che non stanno in piedi. E non stanno in piedi non perché, come scrive Contessa, sarebbero “conservatori” e “di destra”, ma perché, molto più semplicemente, non sono veri.
Prima stortura: Contessa afferma che la disastrosa situazione attuale dei “lavoratori creativi” è dovuta a uno squilibrio tra l’immensa offerta di forza lavoro in questi ambiti e una scarsa, scarsissima domanda da parte di chi il lavoro lo offre. Chiariamo, c’è certamente tantissima gente – forse troppa – che vuole fare lavori di questo tipo, che ora chiamiamo “lavori creativi”, ma ciò non basta a giustificare l’abuso di stage gratuiti, di contratti truffa, di partite iva che mascherano posizioni non contrattualizzate.
Qualche esempio tratto dalla mia personale esperienza: anni fa ho lavorato, sottolineo lavorato, per sei mesi per una casa editrice milanese di medie dimensioni. Il mio inquadramento nella redazione era quello di uno stage universitario extracurriculare (mi ero appena laureato). Le mie mansioni erano varie, e nessuna di queste era coperta da altri dipendenti, il che annulla qualsiasi valenza formativa del supposto stage. Senza le mie competenze specifiche, accumulate negli anni universitari e nelle precedenti esperienze lavorative che avevo accumulato, io quel lavoro non l’avrei potuto fare. Non ero lì per imparare, ero lì per lavorare.
Ma era un contratto di stage, e percepivo al mese 130 euro di rimborso spese, ovvero 5 euro al giorno per pagarmi un panino. L’abbonamento ai mezzi pubblici me lo pagavo io. E oltre a fornire prestazioni che, senza di me, avrebbero necessitato l’assunzione di qualcuno, ero anche attorniato da altri ragazzi nella mia stessa situazione. Sulla ventina di dipendenti della casa editrice, più della metà erano stagisti a 130 euro al mese. Non è un caso raro, ne esistono tante di queste situazioni, e dimostrano il fatto che di lavoro ce n’è, sono i soldi, o la volontà di investirli, a mancare. Per la cronaca: sono portato a propendere verso la seconda opzione – la mancanza di volontà di investire – non si spiegherebbe altrimenti il fatto che la stessa casa editrice potesse permettersi spese da migliaia di euro per andare a Francoforte in hotel a cinque stelle.
Gli esempi di questo tipo abbondano. E l’abbondanza di offerta di figure professionali formate per quei lavori non basta a giustificare un comportamento del genere. E il discorso vale per il mondo dell’editoria, per quello del giornalismo, per quello della produzione audio-video, ma anche per molti, moltissimi altri lavori. E qui arriviamo alla seconda stortura, una stortura che il discorso di Contessa eredita, bisogna ammetterlo, dall’orientamento stesso della campagna, che non punta il dito sullo sfruttamento del lavoro in generale, ma su quello delle categorie definite come “lavoratori creativi” (e ci sarebbe un trattato da scrivere sull’inadeguatezza dell’espressione “lavori creativi”, ma andremmo ancora più per le lunghe).
Seconda stortura: le richieste di stage gratuiti e le offerte di lavori sotto pagate non sono una prerogativa dei lavori cosiddetti creativi. Si va dai call center che offrono 3 euro e mezzo all’ora agli studi di avvocati, di architetti, ai lavori precari nei ministeri, nelle scuole, negli ospedali. E basta sfogliare le pagine web di offerte di lavoro, provateci, vien da ridere a vedere quanti siano i campi che si permettono di usare la parola magica “stage”, con accanto quasi sempre la parola “gratuito” o la frase “non è previsto alcun rimborso spese”.
Terza stortura: Contessa afferma che internet, in questi ultimi anni, ha avuto, nei confronti dell’ultima generazione di aspiranti creativi, lo stesso ruolo che la televisione dei reality ha avuto verso l’ultima generazione di quelli che sognano di diventare calciatori o veline. Internet avrebbe di fatto, secondo lui, spinto questi giovani «alla ricerca, più che di un’effettiva realizzazione personale, di un certo “stile di vita creativo”».
Le obiezioni che vengono spontanee in questo caso sono due: la prima, per fortuna, Contessa se la fa da solo quando scrive «qui si entra nel territorio altamente personale dei concetti quali la realizzazione di sé, e ovviamente è difficilissimo dare dei giudizi». È vero, che lo vogliamo o no, non possiamo obbligare nessuno a scegliere una strada nella vita piuttosto che un’altra, e nessuno in teoria si può permettere di decidere chi ci può provare e chi no.
In teoria, ho detto, perché in pratica qualcuno che decide c’è. A decidere chi ci può provare e chi non ci può provare è ancora una cosa che in molti pensano relegata al Novecento. È il censo, nient’altro che il censo. Chi può permettersi di accettare stage gratuiti o contratti sottopagati, molto spesso è chi se lo può permettere. Mi ci metto dentro anch’io, se non avessi il grande privilegio di avere una casa di proprietà che mi permette di non dover pagare un affitto, probabilmente non sarei mai arrivato ad arrivare a uno stipendio. Probabilmente non avrei potuto accettare lo stage di cui ho parlato prima e non avrei potuto fare una buona parte delle esperienze lavorative che ho accumulato in questi anni e che mi hanno formato. Anche perché avrei dovuto fare molti più lavori pazzi e scaberci di quelli che già ho dovuto fare (e un po’ ne ho fatti, ve lo assicuro).
A questo proposito c’è un altro bell’articolo pubblicato da minima&moralia, che su questo punto entra tranciante come una mannaia. L’ha scritto Christian Raimo, e questo è l’estratto che mi interessa:
«Se alla tenerezza subentra un po’ più di ferocia contro se stessi, ci si può anche chiedere: come campa questa gente? Come va al cinema? Come si compra il cellulare nuovo? Come va in vacanza? L’impressione che si ha, frequentando molti di quei trentenni iperformati di cui l’Istat condanna almeno un 30% alla disoccupazione, è che in Italia esista una sorta di welfare dello status. Una serie di famiglie di pensionati o prepensionati che finanziano finché possono il limbo di questi post-laureati con redditi da fame pur di conservargli una forma in vitro di credibilità. Mamma e papà pagano l’assicurazione per la macchina, la frizione se si rompe, l’Ipad al compleanno, il dentista… alimentando una specie di grande bolla illusoria che le cose andranno meglio, che prima o poi un contratto per loro figlio arriverà, e intanto il loro figlio può non mendicare al lato della strada, chiedendo qualche spiccio per curarsi una carie dolorosa»A me, che la macchina non ce l’ho, che dal dentista ci vado una volta ogni quattro anni, che il cellulare l’ho cambiato due volte in dieci anni, che l’ipad non ce l’ho e che in vacanza ci vado poco, devo confessare che questo ragionamento mi colpisce profondamente, perché è stravero. Quando mi si è rotto il computer questo autunno, dopo cinque anni di valoroso serivzio, chi pensate che mi li abbia dati i soldi per compramene un altro, ovvero, per continuare a lavorare?Quarta stortura. Contessa a un certo punto lancia un sasso:«io sono sinceramente convinto che la campagna sia stata ideata con le migliori intenzioni, ma viene anche spontaneo immaginare che, alla luce del successo che ha avuto, essa possa fruttare agli autori, in futuro, dei lavori retribuiti. Contraddicendo quindi il messaggio stesso della campagna: lavorare gratis, in certi casi, serve».Lavorare gratis in certi casi serve, è vero, ma allora definiamo che cosa vuol dire lavorare gratis. Faccio ancora un esempio tratto dalla mia esperienza personale.Negli anni dell’università ho lavorato, insieme ad altri tre compagni di università, a una rivista di letteratura che si chiamava El Aleph. L’abbiamo fondata noi, ci scrivevamo noi e altri nostri compagni di corso o esterni interessati. I costi di stampa della rivista erano sostenuti dall’università, ma nessuno era pagato. Né noi, né i nostri collaboratori. Siamo andati avanti 4 anni e l’esperienza che abbiamo accumulato leggendo i testi altrui, correggendoli, scrivendo pezzi nostri, impaginando, organizzando eventi e gestendo la distribuzione non li avremmo imparati in nessuno dei corsi che l’università ci proponeva.È stata una delle cose migliori a cui abbia partecipato nella mia vita e, a ragionare come Contessa, si trattava di lavoro non retribuito, come quello dei ragazzi di Zero. Ma se lo definiamo così, allora è simile anche a uno stage gratuito in un giornale o in una casa editrice. Mi sembra chiaro che non è così: abbiamo lavorato a un nostro progetto, abbiamo imparato un sacco di cose e nessuno ci ha guadagnato nulla, tranne noi. Diverso sarebbe stato il discorso se la rivista fosse stata edita da qualcuno che ci avesse chiesto di lavorarci gratis. Certo ci abbiamo guadagnato solo esperienza, una moneta con cui non si pagano gli affitti e non ci compra i vestiti, ma chiunque credo che riconoscerà il fatto che lavorare gratis per se stessi e farlo per altri non siano nemmeno lontanamente lo stesso fottuto campo da gioco.Cazzo, ho scritto troppo, lo sapevo. Allora concludo allineandomi in linea di massima alla chiusa di Contessa, ma aggiungendo qualche proposta presa dalla chiusa di Raimo e riabilitando la campagna di Zero dalle accuse di «slacktivism del tutto superficiale e innocuo» di Contessa.La campagna di Zero ha un merito, quello di farci tornare sull’argomento e quello, non da poco, di dare a molta gente una sensazione utile, quella di non essere da soli. Certo, se rimane una condivisione di un video carino questa roba non serve a nulla, se non ai ragazzi di Zero, che si sono fatti un nome grazie alle loro capacità. Ma non voglio essere troppo pessimista. La coscienza di classe di cui parla Raimo in fondo al suo articolo da dove parte se non dalla condivisione: condivisione di un punto di vista, di una situazione, di una prospettiva e di un obiettivo. Ora siamo ancora indietro, siamo alla condivisione di un punto di vista. Ma una strada, seppur lunga, è fatta di piccoli passi. Invece di criticare chi fa il primo accusandolo di non aver fatto un salto, pensiamo a quale potrebbe essere il prossimo.La butto lì, e la butto lì volontariamente grossa: creiamo una corporazione, una lobby di gente che smette di dilaniarsi in una infinita guerra civile da homo homini lupus e decide di prendere una posizione compatta, e di rifiutare, d’ora in avanti, qualsiasi lavoro gratis che non sia, al limite, il primo. E se un’agenzia pubblicitaria vorrà lavorare con i ragazzi di Zero o con altri porfessionisti pagherà il giusto, se no può sempre chiedere a chi ha girato i video della campagna di Bersani dell’anno scorso. Alla fine se non vuoi pagare chi ti sa aggiustare lo sciacquone del cesso sei libero di non pagare chi non lo sa fare.