Ieri ha debuttato – col botto – una campagna di sensibilizzazione sullo sfruttamento del lavoro in ambito artistico e culturale, una campagna ottimamente realizzata da un collettivo di videomaker che si chiama Zero.
Tre video, un manifesto, un messaggio molto semplice: il lavoro creativo è lavoro vero, come tutti gli altri, e se l’idraulico, il giardiniere o l’antennista lo si paga in euro, non si capisce perché il grafico, il copy, il giornalista, il video maker etc., lo si pretenda di pagare in esperienza o in righe di curriculum, moneta con cui, è risaputo, non si paga l’affitto.
La battaglia, insomma, è di quelle sacrosante e giuste, che dovrebbero unire milioni di giovani lavoratori in un fronte comune, una massa critica capace di lottare compatta per i propri diritti fondamentali, ora completamente inesistenti.
E infatti così è stato, almeno sui social network. Personalmente sono stato tra i primi a diffondere il lavoro degli Zero, ieri mattina, l’ho fatto attraverso una brevina che abbiamo pubblicato sulla pagina culturale de Linkiesta e son stato ben contento di vedere, pian piano, i tre video occupare pian piano l’intera rete. «Non sia mai che stia iniziando qualcosa di buono», mi son detto.
A fine giornata, però, quando ormai tutti i siti di informazione avevano ripreso la notizia e quando tutta la mia timeline di facebook e twitter non parlava d’altro, non ero più così contento: c’erano due cose che mi infastidivano, e mi infastidivano molto.
La prima riguarda noi, che abbiamo tra i 25 e i 40 anni, che lavoriamo in settori “creativi” e che abbiamo assistito negli ultimi dieci anni a un crollo vertiginoso dei salari e delle retribuzioni, in gran parte dovuto proprio al diffondersi dell’atteggiamento stigmatizzato dalla campagna di Zero, la sottovalutazione – quando non lo sfruttamento vero e proprio, pro bono – del lavoro creativo.
In questo caso il mio fastidio – un misto di rabbia e di delusione – deriva dalla solita constatazione: siamo tutti bravissimi a fare i sindacalisti rivoluzionari su Facebook o su Twitter, ma quando le cose bisogna farle sul serio non ci proviamo neppure. E così, quando ci propongono stage non retribuiti, pagamenti in esperienza e curriculm non facciamo una piega e accettiamo ringraziando.
Lo abbiamo fatto tutti (io, per esempio, nel passato ho fatto due stage, uno gratis e uno a 130 euro al mese). Lo continueremo a fare. E si avvicina il tempo in cui dovremmo affrontare la nostra ipocrisia e scegliere: o andiamo avanti così e la smettiamo di rompere le balle, oppure smettiamo di accettare la situazione da ora, non da domani, e ci rifiutiamo tutti di lavorare gratis. Sarebbe molto bello che succedesse, ma la vedo dura.
La seconda riguarda i mezzi di informazione, lestissimi nel pubblicare la campagna di Zero, che infatti nel giro di due ore era dovunque. In questo caso la tristezza deriva dal fatto che questi siti, che siano grandi quotidiani o realtà più piccole e indipendenti, spesso contano molto sul lavoro di stagisti non, o scarsamente, retribuiti.
Chiaro, non c’è niente di cui stupirsi: se un contenuto assicura 10mila click in poche ore, non si guarda in faccia a nessuno, sono tutti pronti a pubblicare qualsiasi cosa. Anche se è un atto d’accusa contro se stessi.
Però più ci penso più mi vien da ridere, perché tra coloro che ieri hanno pubblicato alcuni di quegli articoli ci sarà stato quasi certamente anche qualche stagista non pagato.