L’onesto JagoFavino, Goldoni e l’avanspettacolo

"Servo per due": Pierfrancesco Favino e compagnia "Danny Rose" Ma voi ve lo ricordate “Polvere di Stelle”, quello con Sordi e la magnifica Vitti? Oppure “Roma”, di Fellini, nell’episodio in ...

“Servo per due”: Pierfrancesco Favino e compagnia “Danny Rose”

Ma voi ve lo ricordate “Polvere di Stelle”, quello con Sordi e la magnifica VittiOppure “Roma”, di Fellini, nell’episodio in cui racconta gli ultimi bagliori dell’Avanspettacolo? Vi ricordate come omaggia quei guitti, là sul palcoscenico, che dovevano combattere col pubblico – la “tigre da domare”, come lo definiva Petrolini – un pubblico pronto a far battutacce o a fare la “gattata”, ossia il lancio del gatto morto contro l’attore in scena?

Allora non so, sarà stato per l’Ambra Jovinelli, che è un teatro, appena accanto la stazione Termini, con una storia infinita e bellissima di comici e popolarità (se non fosse per l’insipienza dei politici, che lo trattano come un supermercato); sarà per il clima di feste appena concluse, che era befana; sarà per una platea stracolma “in ogni ordine e grado”, con volti noti tipo il sulfureo Haber o visi ingenui di bambini emozionati. O sarà l’età, che ormai avanza. Non so, sarà per tutto questo, ma vedendo “Servo per due” della compagnia “Danny Rose”, con Pierfrancesco Favino protagonista, mi sono anche un po’ commosso.

Allora, cerco di scordare la commozione, e di fare un racconto utile per chi non c’era.

Teatro strapieno, si è detto, con gli strapuntini. E giustamente, direi: perché il progetto “Danny Rose” merita ogni attenzione. Si tratta di un gruppo di attori, tutti di livello, che si è sostanzialmente consorziato in collettivo. Hanno studiato assieme in workshop e stage, hanno provato assieme, dividono tutti la stessa paga (anche la star) e vanno in scena. Già questo è, per me laico, un miracolo. Un gruppo compatto, affiatato, felice di stare assieme: che si diverte e fa divertire il pubblico. Che fa tutto facile, ma non semplice.

Poi: Goldoni. Tempo fa abbiamo assistito, con immenso piacere, al “Servitore di due padroni” diretto da Antonio Latella: un lavoro intenso, concettuale, algido, raffinatissimo nella destrutturazione del canovaccio goldoniano e della tradizione scenica italiana. Ora ci troviamo con lo stesso lacerto di copione, che in mani altrui diventa tutt’altro. Però è bello segnalare come un “classico” della retorica teatrale nazionale – con tutto quello che Strehler ha fatto di questo testo – diventi il campo di battaglia per due edizioni diversissime ma ugualmente efficaci e stimolanti.

Ancora: lo swing. L’ambientazione scelta dai registi, Favino e Paolo Sassanelli – che è persona seria e di talento – è il finire degli anni Trenta in Italia. Ed è incredibile pensare a quanto noi, oggi, si abbia bisogno di tornare, sentimentalmente e emotivamente, non certo al disgustoso regime fascista, ma alle canzonette, al trio Lescano (tempo fa recensivo Ladyvette che fa un approfondito lavoro in proposito).

Si tratta, insomma, di un “Amarcord” dell’anima. Tanto più per questo “Servo per due”, che è ambientato in quella che potrebbe essere la Rimini di Fellini: con quel gusto là, provinciale, un po’ sboccacciato un po’ bigotto, tutto italiano, che il genio di Federico ha raccontato meglio di chiunque altro.

Allora provate a immaginare: e se Fellini avesse incontrato Goldoni? Se avesse messo in scena proprio questo “Arlecchino”? Forse il risultato non si sarebbe discostato dal lieve, delizioso, raffinato, gioco teatrale proposto da Pierfrancesco Favino e dalla compagnia DannyRose. Ci sono tutti gli ingredienti: l’orchestrina ammiccante e scoglionata al tempo stesso (fantastici i quattro musicisti); il comico caratterista; la prim’attrice esuberante; il primo innamorato; il servo scaltro e molto altro. Insomma, c’è Goldoni, ma c’è Fellini, c’è l’italietta cialtrona, c’è la polvere di stelle, in questo spettacolo, che commuove proprio nel momento in cui fa più ridere.

Perché poi le battutacce bassoventresche, i doppisensi, si sublimano in una commedia musicale raffinata, che è una tradizione tutta nostra. Non gli insopportabili musical anglofoni: semmai quel gusto retrò di certo Garinei e Giovannini, del Sistina com’era – in questi giorni omaggiato da Rai5 – tipo “Rinaldo in Campo”, o il “Giorno della Tartaruga”Insomma, quel mondo di Rascel, Modugno, Panelli, Valori, Delia Scala

Li rimpiangiamo, certo, per quanto erano incredibili quegli attori: ma li abbiamo anche oggi, e forse più bravi, più versatili, più divertenti.

A vedere in scena il nutrito cast di questo “Servo per due”, il critico non può non cogliere le citazioni, i rimandi colti, il gioco metateatrale sotteso: ma non importa. Loro, gli attori e le attrici, stanno bene sul palco e ci donano quella loro grazia. Che è però una grazia caduca, autoironica, non più ingenua e maliziosa come poteva essere nel Sistina o nell’Ambra di allora, semmai consapevole della propria evanescenza. Un gusto da avanspettacolo appunto, ma d’oggi: un qualcosa da macerie incombenti, da sottoproletari o precari affamati, da teatranti iperpreparati e consumati, da guitti in eterna fuga e lotta. Non a caso è così forte l’omaggio a Fellini: in una scena vediamo anche un vecchio cameriere (quasi un cechoviano Firs) che si imbatte proprio nella magica nave dell’Amarcord felliniano. Allora, qui è evidente, smaccato, il gioco macchiettistico, i lazzi, volutamente e sapientemente superficiali: c’è tutto l’elenco delle “caccole”, degli scherzetti, degli ammiccamenti, del coinvolgimento (con tranello) del pubblico, dei dialetti e delle parolacce. Non manca nulla. È un glorioso, zozzone, cialtrone, teatraccio. Che però fa tenerezza.

È bellissimo per questo, anche perché loro, in scena, lo sanno: sudano e si offrono, generosamente. E il pubblico ci sta. È un gusto antico da scavalcamontagne, da compagnia di giro che canta e balla (c’è pure un omaggio a quelle che erano le 12gambe12!) sotto le bombe o sotto la minaccia costante di un ridicolo manganello fascista. Teatranti pronti a tutto, allora come oggi, per l’applauso, per la risata, per far star bene il pubblico: ma quelli d’oggi, a differenza dei guitti di allora, tengono coscientemente una carica decadente, amara, consapevole che incide e non poco. Un lieve sfalsamento rispetto all’immedesimazione, in tutti e ciascuno: quasi un mostrarsi, uno svelarsi, di chi ci crede fino a un certo punto. Ecco la differenza, ecco lo scarto interpretativo.

Perché, alla fine, come sempre, a tenere le fila del gioco ci sono gli attori: generosi a dir poco. Capaci di scherzare con se stessi e con il pubblico. Cantano, ballano, la dicono tutta e pure bene. Che altro? Sarebbe da citarli, tutti e ciascuno; ma (per fortuna) sono molti e bravi, ed è un lavoro così corale che preferiamo non far torto a nessuno e sorvoliamo: in questo spettacolo – ah, non l’ho detto: in realtà è un testo inglese, “One man, two guvnors” di Richard Bean, poi tradotto e adattato; prodotto da Gli Ipocriti con il gruppo “Danny Rose” e con il sostegno del Teatro della Pergola di Firenze –, ci sono 20 attori (12 in scena), 4 musicisti, lo staff tecnico: un impegno davvero notevole e raro, insomma.

Resta l’impatto della commedia, di un canovaccio, che funziona – più nella prima parte che nella seconda. Al di là della trama (che già per Goldoni o per Strehler contava poco o nulla); al di là della forma (Latella da una parte, questi dall’altra); al di là della puzzetta sotto il naso del critico, che era pronto a stroncare e invece si doveva nascondere l’emozione.

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