CineteatroraIl diritto di una fine

Una voce esce dal buio di un fumo raccolto da una partenza ed esposto, messo a nudo da un tracciato scenico di rivelazione aperta. Non esiste per forza un destinatario, ma la liberazione da un peso...

Una voce esce dal buio di un fumo raccolto da una partenza ed esposto, messo a nudo da un tracciato scenico di rivelazione aperta. Non esiste per forza un destinatario, ma la liberazione da un peso che mette radici nel rapporto tra una figlia e una madre. Miele fa un lavoro per cui non c’è codificazione né ammissione di legge, è una che dà la morte a chi glielo chiede sul limite dell’esasperazione e dell’abbrutimento cui la malattia spinge senza scrupoli di devastazione. Un impiego inqualificabile come del resto verrebbe classificato dal bigottismo corrente, quello che non sperimenta il diritto, ma la condanna etica di una fine onesta.

Dalle pagine di A nome tuo di Mauro Covacich scorre quasi per natura, se non per un linguaggio che risente felicemente della sua fibra letteraria, un disegno drammaturgico che Cinzia Spanò, presenza umana della protagonista sotto falso nome, rintraccia prima di tutto nel dettaglio d’azione giustificata. Il microcosmo dei farmaci letali, l’alfabeto dei loro effetti, il codice comportamentale e di relazioni che la clandestinità dell’atto impone. In scena, nell’orizzontalità espressiva di un monologo in cui abitano molti incontri, si aprono e si chiudono quinte agganciate le une alle altre come porte simbolo di un ipotetico confine tra i due mondi, e così tra il dolore accanito e muto di Miele per la perdita della madre fino alla conoscenza dell’ingegnere Grimaldi.

Sulle stesse porte si proiettano quadri di nature che sottintendono la smania per l’acqua, il sottopasso immenso e silente in cui è possibile sfidare le forze maggiori fino a sfinirsi e pacificarsi. Il nuoto è per Miele la ricerca di un senso introvabile, la pazienza che sfoga la fatica di avvicinare famiglie prostrate esponendo loro i metodi possibili per non patire e andarsene senza ritorsioni, né sensi di colpa. Efficacia e dolcezza sono i paradigmi di Miele, regole che si scardinano nel momento in cui Grimaldi, in perfetta salute, chiede pari diritto di fine per aver esaurito le ragioni di svegliarsi dopo anni di riconoscimenti professionali e passioni intellettuali.

La tensione tra i due personaggi è letta come un passo a due, interrotto soltanto dalle libere confessioni di Miele, dagli incontri con le famiglie accomunate dal desiderio di un ordine nel ripetersi drammatico e crescente delle conseguenze di patologie incurabili o terminali. Così la storia di Riccardo, giovane inchiodato a un letto che nulla ha a che vedere con le chat fugaci tra Miele e Stefano, amante sposato e a sua volta oggetto di bugie. Resta quella terra di mezzo in cui è vitale sospendere il dovere di emendare, mentre scorre piano e senza imposizioni la facoltà di concordare come recidere il proprio volto.

La regia di Roberto Recchia non incalza, ma rispetta la parola che dichiara o sottintende, domanda gesti e carnalità nella durezza di una giovane protagonista che Cinzia Spanò rende capace di infiltrazioni sensibili, cedimenti e compromissioni col proprio smarrimento. Letture impossibili nel ritrarsi perennemente distaccato di Yasmine Trinca, suo alter ego in Miele, esordio cinematografico di Valeria Golino tratto dallo stesso intreccio di Covacich. Se inoltre nella pellicola l’ingegnere Grimaldi, magistralmente reso da Carlo Cecchi per ironia tragica e distanza dalla noia assassina, condiziona lo scarto di Miele, in scena con Ruggero Dondi si mantiene vivo e visibile un dualismo di posizioni in equilibrio, se non per l’effetto da clownerie in cui Grimaldi compare vestito da attore di varietà del muto come in una visione onirica. Scelta quest’ultima forse più straniante nella misura di un approccio drammaturgico e registico in ascolto, pur con lievi sottolineature didascaliche di troppo nella sequenza dei video proiettati.

Il senso di un’operazione che salva o decreta un ordine innaturale con guanti di lattice, metafore mitologiche, musiche scelte per gli ultimi minuti di respiro e superalcolici che levino l’amaro passa davvero come ring dell’umano. Strazio e leggerezza rara nella poesia degli occhi di chi affianca gli intrepidi amanti della vita gettarsi dallo scoglio più alto per tornare alla placenta marina o, per chi crede, all’immateriale più docile.

PimOff Milano stagione 2013/14

Associazione Pim Spazio Scenico

A NOME TUO

Liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Mauro Covacich (Giulio Einaudi Editore)

Adattamento Cinzia Spanò

Regia di Roberto Recchia

Scenografia Romeo Liccardo

Con Cinzia Spanò e Ruggero Dondi

Luci Maria Pastore

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