Anche le mie figlie Maria Heloisa e Fernanda, 5 e 3 anni, sono discendenti di superstiti di uno sterminio su base razziale.
Mia moglie infatti è afrobrasiliana, e per una serie di ragioni escluderei che i suoi antenati siano arrivati in Brasile attratti dalla bellezza dei paesaggi.
Ci penso, ogni tanto, a quella storia, che è diventata la mia storia, e oggi che giustamente il pensiero di tutti noi va alle vittime delle persecuzioni naziste provo a dedicarci qualche minuto in più, per compensare quei milioni di morti innocenti dell’oblio che – in parte inevitabilmente, visti i secoli passati – è sceso sul loro destino.
Un destino atroce, che li vedeva catturati e strappati alle loro terre per essere imbarcati su navi negriere, secondo un criterio piuttosto sbrigativo: più ne ammassiamo nelle stive, era la logica dei mercanti di esseri umani, più è probabile che ne arrivino vivi a destinazione, dove ce li pagheranno bene. E peccato per quelli che non ce la faranno a causa delle condizioni disumane del viaggio e delle torture.
Un destino raccontato in modo vivo e drammatico, tra agli altri, dal poeta Antônio Frederico de Castro Alves, nel poema O navio negreiro, che lo consacrò tra i maggiori della letteratura brasiliana dell’Ottocento, oltre a farne il campione degli abolizionisti.
Castro Alves era baiano, e dunque viveva in una società profondamente divisa, nella regione che più di tutte nel continente americano è stata marcata dalla presenza dei neri, giuntivi in percentuali molto superiori, ad esempio, di quelle fatte registrare negli Stati Uniti. Una presenza ancora oggi fortissima nella società brasiliana, che – nonostante abbia realizzato un modello di convivenza che nella sostanza funziona – periodicamente vede riaffacciarsi sentimenti o preconcetti razziali (ne ho scritto recentemente qui e qui).
Oggi a Castro Alves è intitolata, oltre che la sua cittadina natale nell’interno dello stato, una piazza nel centro di Salvador, la capitale della Bahia.
È vicina al centro storico, il Pelourinho, ed è un tradizionale luogo di concentramento delle moltitudini che ogni anno partecipano al Carnevale della Bahia, probabilmente la più imponente, certo la più divertente festa di strada del mondo. Quasi centocinquanta anni dopo la pubblicazione del suo poema, il nome di Castro Alves è così venuto a legarsi ad un luogo che almeno una volta all’anno diventa simbolo della più travolgente gioia di vivere, e forse è un giusto contrappasso, un risarcimento postumo per i milioni di esseri umani cui fu negata ogni dignità e che grazie a lui vengono ricordati da tutti i brasiliani, che a scuola hanno nelle sue opere l’equivalente dei Promessi Sposi per un ragazzo italiano.
Ecco, per questo motivo, quando tra qualche anno racconterò a Maria Heloisa e Fernanda la loro storia inizierò proprio da qui, da Praça Castro Alves, e dalle note di Caetano Veloso, che a questo luogo, alla frenetica agitazione che vi si svolge nei giorni di Carnevale ha dedicato uno dei suoi primi successi, una travolgente marcetta che inizia così: “A Praça Castro Alves è do povo, como o ceu è do avião”, e sono certo che sarà il modo migliore, per nulla irrispettoso, di trattare un argomento così drammatico.