CineteatroraIl resto lo fa l’ascolto: dal teatro dell’assurdo alle macchine del sesso

    C’è un’umanità spinta fino all’estremo, quella stanca di guerra e per cui la parola assomiglia a un artificio che spolpa le relazioni. L’osservatore che la ritrae è il drammaturgo sopravviss...

C’è un’umanità spinta fino all’estremo, quella stanca di guerra e per cui la parola assomiglia a un artificio che spolpa le relazioni. L’osservatore che la ritrae è il drammaturgo sopravvissuto alle afasie beckettiane, quelle che a distanza di qualche anno portano i segni di una rivoluzione carica di colpe e annullamenti delle colpe, di giudizi e lazzi irrazionali. Così, quando Harold Pinter scrive Il calapranzi nel 1957, semina tempeste subdole, incalza con un corpo a corpo tra due presunti sicari addomesticati all’ordine e al sopruso.

I viaggi lontano dal Regno Unito tra i popoli che hanno subìto torture ed esilio forzato fanno sì che il futuro premio Nobel provi una strada inedita nel raccogliere le spoglie sceniche di tragedie misconosciute. E allora Ben e Gus, serrati in una stanza descritta in didascalia come seminterrato, replicano il gioco sfinente dell’attesa senza risposte, lasciando scorrere l’abuso di forza sinistra e il rincaro beffardo di un montacarichi che sale e scende con ordinazioni bizzarre, come fosse loro compito soddisfare ogni capriccio del nemico che sovrintende ad azioni e commesse omicide.

Riprendere questo testo, più spesso identificato con una prima serie pinteriana, contempla intanto la revisione simbolica dell’oggetto che fa impazzire e poi rientrare nei ranghi due sottoposti all’esecuzione di un ordine e di prove mai finite. E non si tratta di astrazione, ma di cerchi concentrici nelle domande ripetute di Gus o nella strafottenza di Ben, fino all’esaurimento e alla chiusura del cerchio con la ripresa delle azioni iniziali poco prima del colpo di scena, che fa scaraventare in scena la nudità di Gus. La traccia ideologica di Pinter, la mutevolezza cinica del suo sguardo che mai fa mancare all’appello le inversioni di vittima e carnefice, sono ben rese nella messinscena di Antonio Mingarelli, con la calcolata insistenza e distanza inquieta dei due killer interpretati ottimamente da Alberto Onofrietti e Fabrizio Martorelli.

Il rito fertile della scena inglese invasa da scritture ostiche e perenni di autori migranti come Ionesco, fa fare un passo indietro di altri cinque anni per abbracciare la vertigine dell’assurdo in parodia con La cantatrice calva. L’altro nucleo ideologico, che metterà radici con la propaganda thatcheriana sulla englishness, trova nel congegno drammatico di Ionesco quasi una profezia e un deliberato divertissement grottesco: due coppie si affrontano per equivoci e nonsense, reiterazioni e proverbi inesistenti, discorsi abbozzati sul buoncostume senza lontanamente avviarsi a una conclusione che non sia deragliata.

Su questo terreno, l’ultima regia di Massimo Castri, con la collaborazione di Marco Plini, fa de La cantatrice calva una partitura serrata di marionette umane senza appello, un simmetrico e irresistibile rimbalzo di posture e credenziali fallite a fronte di un lungo attraversamento del dramma da camera e della borghese nullità trafitta dalle proprie smancerie e nefandezze. Con Castri e un cast di quattro attori travolgenti, oltre che precisi nel restituire la pulizia dell’eccesso formale e il vuoto viscerale di un interno inglese, la forzatura della convenzione torna alla parola d’attore per rivoltare qualsiasi utilità discorsiva o rapporto coniugale e di sangue.

Il resto lo fanno quegli uomini e quelle donne che a tutt’oggi vanno a teatro per ritrovarsi esclusi o chiamati in causa in un monologo sulle domande lecite o gli illeciti linguaggi del sesso, sulle categorie di chi ne fa un mestiere, un vizio più o meno violento o una schiavitù. I sei volti di Sexmachine di Giuliana Musso, una certezza di bravura e profondità degne di risonanza sempre maggiore, definiscono intanto lo scoglio aspro tra caricatura e personaggio. Una distinzione malferma per molti interpreti e capace di disastri se a fronte di un tic o una parlata gergale non c’è una stratificazione credibile. Vale a dire, un corredo di “consorzi umani” strappati a una storia e a un luogo, a una condizione non scontata, che ritorna e lascia parlare i ruoli senza rinunciare al comico, ma affidandolo al più logoro filo umano.

Così, l’assurdità del dopoguerra arrabbiato diventa sgrammaticatura della prostituta al microfono, passo solcato da una luce su un marciapiede assecondato da un musico di strada, ma anche un pensionato con un debole per la professionista del sesso o un imprenditore fallito a cercare sfogo a pagamento. La consolazione di chi vende sesso, la sincerità e i tempi di chi contratta, la regola e il bisogno di una soddisfazione e la paura dell’invecchiamento si rincorrono dentro la stessa cronaca cui Giuliana Musso dà diritto di replica non tanto per assolvere o denunciare, ma per riaffidare al teatro il suo compito primigenio: fare di un destinatario pubblico una memoria che si rinnova, scuote, diverte, riflette e patisce. Il resto, appunto, lo fa l’altro osservatore: l’umano che riceve e, soprattutto, decide di ascoltare.

Il calapranzi

di Harold Pinter

regia di Antonio Mingarelli

con Alberto Onofrietti e Fabrizio Martorelli

fino al 24 gennaio 2014 – Spazio Tertulliano Milano

La cantatrice calva

di Eugène Ionesco

traduzione Gian Renzo Morteo
regia Massimo Castri, in collaborazione con Marco Plini
scene e costumi Claudia Calvaresi, progetto luci Roberto Innocenti
musiche Arturo Annecchino
assistente alla regia Thea Dellavalle
con Valentina Banci, Francesco Borchi, Elisa Cecilia Langone, Mauro Malinverno, Fabio Mascagni, Sara Zanobbio
Produzione Teatro Metastasio Stabile della Toscana

fino al 26 gennaio 2014 – Piccolo Teatro Grassi Milano

Sexmachine

di e con Giuliana Musso e con “IgiGianluigi Meggiorin

regia Massimo Somaglino
collaborazione al soggetto Carla Corso

suono e luci Claudio Poldo Parrino

produzione La Corte Ospitale

fino al 26 gennaio 2014 – Teatro Elfo Puccini Milano