I nomi delle cose sono importanti. Non e’ vero che una legge si puo’ chiamare in qualsiasi maniera, da Guendalina a Porcellum, fino all’Italicum renziano, senza suscitare associazioni mentali, connessioni che rievochino memorie o creino sorrisetti. I nomi delle cose, delle persone, sono simboli, diventano tatuaggi di un corpo, parte del DNA di una societa’. Lo sapevano bene i commediografi che affibbiavano titoli e nomi ai personaggi delle loro opere, perche’ gia’ in quell’assegnazione si rivelava il carattere stesso dell’anima. Tutto ha un nome, un soprannome, inclusi aerei e treni, come la mitica Tartaruga, la locomotiva piu’ veloce, allora, delle Ferrovie dello Stato, prodotta alla Breda di Pistoia. La Tartaruga era la motrice dei treni diretti su cui viaggiavo, fin dalla tenera eta’, con la mia famiglia. E con mio nonno. Mi portava con lui, con le littorine, da Sesto a Firenze o, addirittura, fino a Verona, dai miei zii. Avevo quattro, forse cinque anni, con il mio cappotto blu, le penne, il Corriere dei Piccoli e l’affabulazione costante di mio nonno Luigi, che incantava tutti con racconti e storie, con la sua visione politica, con l’ammirazione per Moro, che, negli anni Settanta, era una specie di Matteo Renzi antelitteram. E, quando andavamo a Verona, mentre passavamo sopra le arcate degli Appennini, sulla linea che spartiva le acque della Marina di Calzenzano da quelle del Reno, ricordava sempre la strage dell’Italicus, del 1974. E me la ricordavo anche io, la prima strage che e’ entrata nella mia memoria di fanciullo degli anni Settanta. Mi ricordo che su quel treno, di pendolari notturni, c’erano degli amici di famiglia. E, nel mondo prima dei cellulari, passarono giorni prima che si sapesse chi fossero i morti, i feriti, se c’era da andare a qualche funerale, se qualche altra casa avrebbe avuto lutti, vedovi, orfani, nell’Italia delle stragi, del terrorismo, della rabbia sociale, appena all’inizio di un periodo di austerita’ e di grigiore istituzionale. Quel momento dell’Italicus fu un vero spartiacque nel paese. Forse lo stesso Aldo Moro si rese conto di averla scampata bella, dato che scese dal treno in una stazione prima di Bologna, salvandosi la vita o, perlomeno, un’emozione forte, devastante. Un messaggio, un’anticipazione degli anni bui che sarebbero arrivati.
Per qualcuno della mia generazione e, credo, in maniera piu’ enunciata per chi appartiene a quelle precedenti, il nome Italicus richiama ancora quella strage, quell’evento delittuoso e luttuoso in cui la nostra storia politica si scopri’ piu’ nera, sanguinolenta e per la quale nessuno ha pagato in carcere, un altro di quei misteri italiani per i quali i treni esplodono, le cose accadono, ma non si sa mai chi sia l’autore. Il contrario del concetto delle cattedrali, delle grandi chiese cistercensi del XII secolo, dove contava la creazione sull’autore. Nelle bombe nella strategia dello stragismo, contava non chi compiva l’atto ma che ci fosse distruzione, panico, paura. Che ci fosse timore, sempre di piu’, ad esprimere le proprie idee. Oggi, quegli anni sono lontani, son passati 40 anni in agosto. La lotta politica si consuma sempre meno nelle piazze e sempre di piu’ in rete e l’eversione ha capito da tempo che esistono maniere piu’ subdole per governare l’opinione pubblica, ed una di queste e’ l’incertezza operativa, l’idea che, quale che sia il buono proposito, quale che sia la competenza che le persone mettono al servizio della cosa pubblica, della politica, dello Stato, niente arrivera’ mai a destinazione, tutto e’ destinato a rimanere sospeso, incerto, costosamente e rischiosamente aperto a scenari multipli. La stagione dell’irrequietezza italica e’ nata proprio 40 anni fa, quando quel viaggio dell’Italicus fu interrotto e, come cantava Claudio Lolli in Agosto, la sua canzone sulla strage (sul suo disco capolavoro del folk italiano, Ho visto anche zingari felici), il calore estivo divenne un calore di lamiere e di dolore. Una vampata di nitroglicerina e di plastico che ancora aleggia nell’aria del paese, il paese di persone come me, dei nostri genitori, che ancora non ha assorbito quegli anni, che non ha ancora trovato pace nell’accettare che alcuni capitoli, alcuni posizionamenti debbano essere chiusi, archiviati. Non per non dimenticare, ma per cominciare a cicatrizzare quei traumi, il mio da bambino con un padre che viaggiava spesso per lavoro, il trauma che poi ha abbandonato il paese alle euforie pentapartitiche. Le leggi elettorali che hanno accompagnato il nostro cammino, la nostra crescita umana, le leggi elettorali diverse per ogni elezione, per ogni contesto, perche’ erano uno degli elementi di instabilita’ di incertezza, che regalavano sempre ai soliti il controllo del paese.
Il mondo ora e’ oltre, e’ cambiato, e 40 anni cominciano ad essere tanti. Ma ancora il nome Italicum lo declino direttamente ad Italicus. E ricordo quelle carrozze sventrate, quel treno mai arrivato a destinazione. Sicuramente, quando Matteo Renzi ha usato questo nome per la sua legge elettorale, non sapeva di suscitare in me ed altri (credo di aver letto una dichiarazione simile di Alimonte) queste memorie, di riaprire queste sinapsi, ma, in fondo, e’ un bene. E’ sacrosanto che qualcosa accada ora, di positivo, di veloce e chiaro, che renda il paese meno incerto, meno insicuro, piu’ affidabile e certo dei suoi mezzi e delle sue potenzialita’. E che quel treno fantasma che si chiama Italia, quell’Italia che viaggiava nelle cuccette, che si spostava, allora come ora, da nord a sud, in cerca di fortuna, oggi possa arrivare a destinazione. Personalmente, se la nuova legge elettorale verra’ approvata, per me rimarra’ un omaggio, nel suo nome, nel patronimico, a questo quarantennio di maturazione, di crescita e di irrequietezza che ora puo’ tornare ad essere scellerata fiducia nei propri mezzi e nelle proprie aspirazioni.
“A volte, mi dici una cosa, mi butti una frase quasi a caso. Sappi che ogni volta mi ferisce la maniera leggera con la quale esclami verita’ cosmiche, ma non te ne rendi conto. Ecco, sono qui apposta, a ricordarti che ogni cosa che dici ha un peso, racchiude una speranza, magari un velo, ma permette alle idee di diventare cose e persone che fanno altre cose” K.J. Okker “Governare Entusiasmi”