L’onesto JagoLa commedia di due signorin*

Sergio Friscia e Antonio Alveario C’è un piccolo spettacolo, questi giorni a Roma, in scena alla Cometa, che è una bella riflessione sulla “sospensione dell’incredulità”. Chi si occupa di te...

Sergio Friscia e Antonio Alveario

C’è un piccolo spettacolo, questi giorni a Roma, in scena alla Cometa, che è una bella riflessione sulla “sospensione dell’incredulità”.

Chi si occupa di teatro, ricorderà l’intuizione di Coleridge: quando ci sediamo in platea, diceva lo scrittore, “sospendiamo la nostra incredulità”, accettiamo – per gioco, per convenzione, per amore – di credere a quelle cose strane che avvengono sul palco. Crediamo, che so, che un signore vestito di nero, con un teschio in mano sia un pallido principe di Danimarca che parla con un fantasma. Oppure crediamo che un uomo, vestito calzato imparruccato da donna, possa essere davvero una donna. Potete immaginare le declinazioni possibili di questa “sospensione dell’incredulità”.

Lo spettacolo alla Cometa, ha il titolo, tutto messinese di “Piscistoccu a ghiotta“: è una commedia di Gianni Clementi, “Sugo finto”, adattata in siciliano e portata in scena da Ninni Bruschetta con il sempre straordinario Antonio Alveario e, accanto a lui, il bravo e intenso Sergio Friscia.

Di Bruschetta, ora amato interprete di tanto cinema e tv, ricordo, stagioni passate, lavori di grande nitore scenico (alcuni memorabili Shakespeare) e altri di forte impegno politico, sempre basati su impianti registici acutamente critici e esteticamente ineccepibili. Con questo lavoro, Bruschetta affonda in un percorso che ha già affrontato in precedenza: quello della farsaccia, del comico, del grottesco. Commedia ridanciana, leggera, in cui il regista tocca implacabilmente tutte le corde del kitsch, spinge l’acceleratore verso una ironia anche greve, popolana, immediata. In Piscistoccu, ad esempio, vediamo in un prologo l’attore Friscia – dalla fisicità evidente, i tratti marcati – indossare una parrucca da donna e poi avviare l’azione scenica. La storia è quella di due “signorin*” – non sappiamo, e non sapremo, anche per le sonorità dialettali, se “signorine” o “signorini”: ma il lavoro non insiste sul tema del genere, come pure potrebbe – ossia due zitellette: l’una, Rosaria, quella interpretata da Alveario, più seria, risparmiosa, persino taccagna. L’altra, Addolorata, più vivace, espansiva, spendacciona.

La vicenda è lieve, la trama quasi pretestuosa, per raccontare uno spaccato di vita in un interno: tra crisi e immigrazione, con poche “uscite” (una festa di matrimonio), qualche sogno, e magari alcune interferenze esterne che vengono dalla tv, a colpi di oroscopi.

Allora, direte voi, dove sta quella “sospensione dell’incredulità”? Il fatto è che questo spettacolo tiene proprio per la “convenzione” – nel senso alto del termine – che sa istaurare con lo spettatore. Grazie alla mirabile prova dei due attori, il gioco si dipana lento ma compatto, e tiene paradossalmente anche laddove potrebbe sbracare proprio per eccesso di kitsch. Ad esempio, nella lunga sequenza in cui Friscia, tolta la parrucca, canta con voce da uomo “Se perdo te”, di Patty Pravo, con tanto di lucine da discoteca. La fa tutta, la canta tutta. Come fosse la cosa più normale del mondo. Lo spettacolo, insomma, corre su un filo, è sospeso in cielo senza rete: saltasse un solo elemento di quello squilibrato equilibrio, ce ne saremmo andati senza troppo pensarci su. E invece, sospesa la nostra incredulità, siamo restati seduti, con uno strano sorriso in faccia. Poi, aggiungeva Agostino Lombardo alle parole di Coleridge, c’è anche una “sospensione della sospensione dell’incredulità”: quei rari momenti in cui il teatro ci parla, ci svela per quello che siamo e per quello che stiamo vivendo, ci racconta e scrive – come diceva Flaiano – la “nostra autobiografia”. Momenti rari, appunto, ma non impossibili. E allora anche in un gesto, in uno sguardo, nelle parole di un attore, anche in una commedia sgangherata, possiamo trovare tracce del nostro essere al mondo. 

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