Oggi abbiamo il piacere e l’onore di ospitare un contributo su Russia e conservatorismo di Roberto Orsi, PhD alla London School of Economics e oggi studioso all’Universita’ di Tokyo (vedi note a fine articolo). Congratulazioni ed un vivo ringraziamento a Roberto Orsi!
Leggendo cum grano salis le notizie sulla Russia nella stampa occidentale, si arriva alla fastidiosa sensazione che, qualsiasi cosa facciano i Russi, ci sarà sempre una nuova storia per alimentare un sentimento di ostilità verso il nostro grande vicino orientale. Tuttavia, cosa forse meno nota ai redattori dei grandi media, il presidente Putin trova nel mondo occidentale un numero crescente non solo di ammiratori (http://www.businessinsider.com/how-vladimir-putin-became-the-chuck-norris-of-international-politics-2013-9 ), ma anche di cittadini i quali semplicemente si augurano che alcune (certo non tutte) caratteristiche del capo di stato russo possano in qualche modo manifestarsi un giorno anche nei responsabili politici dei propri paesi.
Questo sentimento può essere spiegato compiendo da un lato una valutazione dell’operato di Putin rispetto agli interessi vitali della Russia come comunità politica, e dall’altro seguendo l’evoluzione della politica occidentale nella sua sempre più evidente polarizzazione e estremizzazione, con particolare enfasi su coloro che oggi spesso non si sentono – non sono più – politicamente rappresentati, sia in Europa sia nel Nordamerica.
Ciò vale soprattutto per l’elettorato di orientamento conservatore. Negli ultimi decenni, il mondo conservatore occidentale ha visto una profonda marginalizzazione, pur rimanendo molto numeroso in termini assoluti. L’asse della politica si è spostato drammaticamente verso istanze di smantellamento di ogni tradizione comunitarista e di preservazione di un minimo di continuità storica, sempre di più attraverso forme di ostracismo ideologico. Oggi persino Jürgen Habermas può apparire come un conservatore. Nulla alla destra di John Rawls pare possa essere discusso pubblicamente. In Italia, il pensiero di un Luigi Einaudi, peraltro dimenticato, sarebbe ormai ai limiti dello scandalo. Tuttavia, l’eliminazione della visibilità dei conservatori non li espunge dalla società e non garantisce certo il successo del “progressismo” nelle sue varie forme, sia quella dell’obamanesimo, sia quello sovranazionale della Commissione Europea, e della linea editoriale unificata che va dal New York Times, al Guardian, ai nostri La Repubblica e Il Corriere della Sera. La ricerca di punti di riferimento per i conservatori è proseguita affannosa attraverso innumerevoli abbagli e trappole, dalle promesse tradite di Nicholas Sarkozy e di David Cameron, al camaleontismo di Angela Merkel, alla farsa del berlusconismo.
A dire il vero, il mondo conservatore, specie nel contesto anglosassone ma anche nell’Europa continentale, sconta la pena di un’adozione acritica del neo-liberalismo, che ha radici culturali solo parzialmente comuni con il pensiero liberal-conservatore, a sua volta rappresentante solo una parte del vasto panorama conservatore in genere. I difetti del neo-liberismo da una prospettiva conservatrice sono molti e sarebbe lungo farne qui un resoconto, ma quello che più ha danneggiato le posizioni conservatrici è probabilmente il suo strisciante anti-intellettualismo. Si è finito per affidare le sorti del campo conservatore a uomini e donne di infimo calibro intellettuale, con una capacità dialettica confinata alla sola produzione di slogan, e i risultati che sono di fronte a tutti. In America, l’ascesa del Tea Party è la manifestazione di un malessere generalizzato del mondo conservatore ma anche il sorgere di un popolo senza guida. Molta perplessità dovrebbe suscitare la centralità di una figura come Ayn Rand, quando gli autori di riferimento potrebbero forse essere indiscussi giganti come Machiavelli, Hobbes, Hegel e molti altri (anche senza scomodare Bismarck e il suo Gendanken und Erinnungen).
Il popolo conservatore in Occidente è dunque alla ricerca di punti di riferimento, e la Russia sta diventando uno di questi. A fronte di un dominio ideologico “progressista” quasi assoluto, Russia e Occidente si sono avviati su percorsi quasi del tutto opposti nell’ambito della ri-costruzione delle rispettive identità collettive.
Per verità, in Occidente sta diventando sempre più arduo parlare di “identità collettiva”. A livello intellettuale si è assistito negli ultimi decenni a una furiosa opera di decostruzione di tutte le realtà intermedie nello spettro che va dall’individuo (l’uno) all’umanità (il tutto). Come occidentali ci troviamo oggi in un ambiente culturale ossessionato da un concetto di libertà come attributo esclusivo dell’individuo (non del collettivo) ottenibile solo con la demolizione di ogni condizionamento. Tale concezione si basa su un modello antropologico molto discutibile, che attribuisce all’idea di individuo (una categoria giuridico-economica di natura quasi metafisica) il ruolo di sostanza della politica. Questa visione è invero problematica perché oscura fino a eliminarla la dimensione necessariamente relazionale, e dunque autenticamente politica, dell’uomo. Pertanto, la liberazione dell’individuo da ogni forma di condizionamento per renderlo finalmente libero, ha in realtà le sembianze da una lato di uno sradicamento di ciascuno da ogni contesto relazionale veramente pregnante, dall’altro la demolizione senza sosta di tali contesti: famigliare, locale, etnico, nazionale, religioso, di civiltà, ora anche di identità sessuale. Il problema di questa concezione della politica è che l’individuo è definito dalle relazioni sopra-elencate, e al di fuori di esse egli non esiste, o meglio: muore.
Quando non è intenta a liberare l’individuo, la politica occidentale è impegnata a salvare l’umanità intera. Sul fronte della politica estera, questo avviene spesso travolgendo regole fondamentali del diritto e delle consuetudini internazionali, come ben dimostrato dal controproducente intervento in numerose aree di crisi negli ultimi decenni, non ultimo l’appoggio nella guerra civile siriana a bande di fondamentalisti allevati spesso nelle moschee delle grandi città europee, e il disastroso risultato, specie per l’Italia, dell’avventura libica.
Dalla prospettiva conservatrice, sul piano della politica interna, nonostante sia Angela Merkel sia David Cameron abbiano proclamato alcuni anni orsono il fallimento del multiculturalismo, nulla è stato fatto per cambiare il quadro di una politica demografica e d’immigrazione essenzialmente e notoriamente autodistruttiva (non è un caso che uno dei libri più venduti in Europa negli ultimi anni sia il volume Deutschland schafft sich ab di Thilo Sarrazin, che si occupa a fondo di questi temi, per quanto in modi discutibili), della quale il buonismo all’italiana rappresenta una delle manifestazioni più grottesche in assoluto. La gravissima crisi d’identità conseguente a tale politiche multiculturali, che ignora la dimensione etnica dell’appartenenza ad una comunità politica, è infine sottoposta alla nemesi storica di un processo di tribalizzazione della società in gruppi, comunità e reti parallele costruite proprio attorno a identità esclusive etniche e etnico-religione della popolazione immigrata e dei loro discendenti, come ormai evidente in molte grandi città europee (Londra in testa). Tali comunità diventano sempre di più la vera comunità politica di appartenenza dei migranti.
La Russia si è mossa in tutti questi ambiti nella direzione opposta. La ricostruzione dell’identità collettiva è stata imperniata sul recupero della più antiche e sofisticate tradizioni culturali del paese, a cominciare da quella cristiano-ortodossa, le quali insistono su fondamenta di carattere comunitaristico. La Russia non è pertanto un mero insieme di individui legati al massimo da criteri di cittadinanza squisitamente burocratici, ma si pone, almeno nelle intenzioni di Putin, come una comunità non solamente di “valori”, ma anche di destino storico comune, come Schicksalsgemeinschaft, che non si piega alla finzione secondo la quale, inspiegabilmente, persone con culture completamente diverse e spesso incompatibili sarebbero poi in grado, o dovrebbero essere in grado, di condividere la medesima cultura politica, come se quest’ultima non avesse alcuna relazione con il resto dei riferimenti culturali. Conseguentemente, Putin si è rivelato particolarmente attento alle questioni demografiche, che sono invero centrali nella teoria della politica almeno dai tempi di Platone, ma che in Occidente sono diventate un tema impossibile da affrontare apertamente, nonostante la grave situazione di invecchiamento della popolazione e tassi di nascita molto al di sotto del livello desiderabile (con l’eccezione della Francia). Nonostante un tasso di mortalità ancora molto elevato, le nascite in Russia sono passate da un minimo di 1,2 milioni nel 2002 ai circa due milioni dell’anno scorso, segnando un ritorno alla crescita naturale della popolazione. L’attuale coorte demografica di neonati russi è più numerosa di quella degli anni Settanta. I Russi continueranno pertanto ad essere un popolo significativamente più giovane delle loro controparti occidentali.
Putin è altresì stato molto chiaro che la Russia come entità territoriale è la casa dei Russi, rimarcando in questo senso il principio fondamentale della territorialità dello stato, in opposizione alla crescente deriva verso una sorta di “tribalismo” nomadico globale sopra accennato. Questo si traduce anche nel principio secondo il quale la politica estera, come il presidente russo ebbe a descrivere in una lettera aperta agli Americani pubblicata dal New York Times, dovrebbe tornare ad essere incentrata sui principi di sovranità statuale, non interferenza, proibizione dell’uso della forza al di fuori dei modi stabiliti nelle organizzazioni internazionali. (http://www.nytimes.com/2013/09/12/opinion/putin-plea-for-caution-from-russia-on-syria.html?_r=0) Anche in questo caso, siamo in presenza di molte proposizioni di carattere conservatore, che sicuramente trovano nel mondo occidentale numerosi simpatizzanti.
Ma non è solo sul piano delle politiche identitarie e demografiche che la Russia si delinea sempre di più come potenza conservatrice in ascesa. Essa si rivela in qualche modo anche nel difficile contesto del governo economico del paese. Com’è noto, sebbene le condizioni di vita in Russia rimangano lontane dal livello di benessere raggiunto nei decenni passati dai paesi occidentali, la Russia sotto Putin ha compiuto una vastissima opera di ricostruzione economica. Nel periodo successivo al 1999, la ripresa economica del paese, complice un colossale aumento dei prezzi internazionali delle materie prime energetiche (passato dai $22-$25 al barile del 2002 al picco di $146 nel giugno 2008), ha avuto un’accelerazione insperata, tale da consentire sia una tulmultuosa crescita dei consumi, sia una grande quantita d’investimenti infrastrutturali di ogni tipo, dai trasporti, alla sanita’, alle forze armate. Putin è riuscito nella notevole impresa di creare una classe media in Russia in un periodo storico in cui la classe media in Occidente, un tempo architrave dell’economia del benessere nonché del carattere democratico degli stati dell’Ovest, viene rapidamente spinta verso un impoverimento generalizzato che non ha precedenti al di fuori dei periodi bellici. Come nel caso dello sconveniente paragone con la crescita cinese, l’osservatore occidentale non può non notare che il sistema economico costruito nella globalizzazione dopo il 1992 ha finito per lavorare contro gli interessi vitali del grosso della popolazione in Europa e Nordamerica. Questo profondo senso di frustrazione si va sempre di più accentuando qualora si contempli il livello di devastazione di tessuti produttivi un tempo floridi in nome di una globalizzazione in cui l’Occidente sta perdendo quasi tutto. L’osservatore di orientamento conservatore potrà notare in questo una pericolosa deriva del modo di pensare alla politica economica. La Russia, lungi dall’offrire un nuovo paradigma economico, induce tuttavia a ripensare all’economia come ad un fatto non interamente distinguibile dalla politica, e a come anzi le questioni economiche siano in qualche modo sempre questioni di natura politica.
L’idea in questo caso è che mentre in Occidente ci siamo affidati a uno pseudo modello di regole “scientificamente” giuste (nelle sue varie declinazioni globaliste, neo-liberiste, neo-keynesiane, di austerità teutonica) sulle quali creare un’organizzazione economica troppo spesso di fatto fallimentare, in Russia come in altri paesi non-occidentali si è optato per un approccio più pragmatico e decisionista il quale, se non può “garantire” risultati certi (tale garanzia non esiste in ogni caso), offre almeno il vantaggio di poter essere cambiato in tempi relativamente rapidi.
Questo conduce direttamente ad uno dei temi centrali nel crescente apprezzamento per il presidente russo e il suo operato. Molti occidentali sicuramente ammirano Putin per una qualità che in Occidente è ormai rarissima, e forse inutile: la leadership. Putin ha una visione, dalla quale si può certamente dissentire, ma ne possiede una. Putin appare in grado di spingere il paese in una certa direzione, e di prendere delle decisioni. L’Occidente è caratterizzato da un altissimo livello di immobilismo. Obama ha fatto roboanti proclami, ma le sue riforme sono state d’impatto tutto sommato modesto, e la sua politica estera una sostanziale ritirata dai maggiori fronti. All’Europa va però la palma del continente più immobile. A cinque anni dall’inizio della crisi dell’Eurozona, se si esclude il Fiscal Compact e poche altre misure a carattere marcatamente tecnico, si può dire che nessuno dei nodi politici della questione è stato affrontato. Le proposte di azione in direzione diverse (maggiore integrazione, unione fiscale, etc…) sono rimaste lettera morta.
L’assenza di leadership può essere ricondotta a due fenomeni interconnessi: in primo luogo, l’ascesa della tecnocrazia come forma di de-politicizzazione (Entpolitisierung) di questioni invece squisitamente politiche, come per esempio tutte le questioni economiche e monetarie, nelle quali i tecnici, gli specialisti, possono fornire appunto analisi tecniche e specialistiche, ma la “scienza”, come già affermava Max Weber oltre cento anni fa, non può fornire risposte a domande politiche circa la “cosa giusta” da fare, perché tali risposte vanno assunte come decisioni (Entscheidungen) di una leadership politica, che se ne assume la responsabilità storica. Nel mondo occidentale ci troviamo paradossalmente con interi pilastri dell’architettura economico-finanziaria in mano a persone in ruoli ufficiali meramente tecnici ma che hanno concentrato in sé un immenso potere politico al di fuori di ogni quadro costituzionale, come evidentissimo nel caso dei banchieri centrali. A questa de-politicizzazione in nome della “scienza”, se ne affianca una nel nome del diritto, come se il diritto potesse fornire risposte alle domande politiche sul “che fare?”, mentre invece esso è un mero strumento dell’azione politica. Ci si trova quindi con giudici, sia a livello nazionale sia europeo, che de facto hanno cominciato a legiferare, più che ad applicare la legge.
In secondo luogo, l’assenza di leadership trova la sua giustificazione in una cultura politica che ha rimosso quasi del tutto la possibilità stessa di esercitare una posizione di comando sulla comunità politica, anche all’interno di solide garanzie costituzionali. La demo-crazia si è trasformata negli ultimi decenni in una a-crazia, da un “sistema di governo” a un sistema per garantire l’assenza di qualsivoglia iniziativa di governo. Dalla storicamente giustificata paura della tirannide e del despotismo si è passati alla liquidazione di strutture politiche fondamentali come lo stato e il governo. Poiché i problemi politici continuano ad esistere, essi riaffiorano continuamente in altri contesti, venendo esternalizzati, come accennato in precedenza, a meccanismi di carattere tecnocratico, o con la creazione o rafforzamento di una reti parallele (finanziarie, mediatiche, religiose, persino criminali) di manipolazione del complesso culturale, economico, giuridico e persino demografico che costituisce ogni società umana. La rimozione della possibilità culturale di una leadership si basa altresì sulla demolizione e demonizzazione del concetto di ambizione, particolarmente quando questa non riguardi l’individuo o l’umanità tutta, ma si esprima nel progetto di una specifica comunità politica. Sarebbe molto difficile discernere quali siano le ambizioni di un paese come l’Italia e dei suoi dirigenti politici, o della Francia al di là di obiettivi di brevissimo periodo. La Russia offre invece al contrario l’immagine di uno stato con grandi ambizioni politiche e che fa non solo della grandezza passata, ma anche e forse soprattutto di quella future, un punto fermo dell’identità russa.
In tutto questo, a conclusione di questo tentativo di analisi del rapporto tra il conservatorismo e Russia, è bene precisare che il grande paese euroasiatico e il suo presidente non offrono un modello politico nel senso di una realtà empirica da imitare. La Russia ha numerosi e gravi problemi, tra cui una corruzione endemica, un’economia ancora lontana dalla diversificazione che si vorrebbe rispetto alla dipendenza dagli idrocarburi, una difficile situazione di sicurezza nel Caucaso. La centralità della figura di Putin potrebbe altresì rivelarsi un problema, come spesso nella storia di questo paese, quando si aprirà inevitabilmente il problema di una successione. La Russia potrebbe anche soffrire nuove e drammatiche crisi sistemiche, come già in passato. D’altra parte, la Russia non è mai stata, per un osservatore occidentale, uno stato da prendere a modello come sistema di governo, anche quando essa era in ascesa, durante i secoli diciottesimo e diciannovesimo, né rappresenta oggi un modello di “buon governo” rispetto alle sensibilità culturali dell’Occidente. Ma le idee della leadership russa attuale, la quale mostra perlomeno di avere coscienza di tali problemi, e di tentare delle soluzioni, idee non tanto riguardanti misure pratiche o modelli organizzativi, ma sui meccanismi di funzionamento fondamentali della politica, hanno e potranno avere anche in futuro continuare ad esercitare un intenso magnetismo per molti di coloro che pensano (e sono legione) che l’Occidente abbia da tempo imboccato una strada senza futuro. Questo rapprensenta anche certamente un patrimonio politico per l’azione internazione dello stato russo. La Russia torna in qualche modo ad occupare il suo ruolo tradizionale, che le fu proprio tra il 1812 e il 1917, come grande potenza conservatrice in Europa.
Roberto Orsi ha conseguito un PhD in Relazioni Internazionali presso la London School of Economics and Political Science. Lavora presso il Policy Alternatives Research Institute dell’Università di Tokyo (東京大学政策ビジョン研究センター).