CineteatroraLe ali spezzate del sogno americano

  C’è come un cerchio di anime calde e umori trasfusi in due copioni a distanza di soli cinque anni. Dalla prima, a Chicago nel 1944, di Lo zoo di vetro di Tennessee Williams al 1949 di Morte di u...

C’è come un cerchio di anime calde e umori trasfusi in due copioni a distanza di soli cinque anni. Dalla prima, a Chicago nel 1944, di Lo zoo di vetro di Tennessee Williams al 1949 di Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller, scorrono i titoli di coda di una versione umana che non smette di sopravvivere in parabole illusorie, divagazioni sognanti e tacite coperture del dovere di cronaca.

Nell’anno di celebrazioni meneghine dell’“Autunno Americano” due drammaturgie capitali si fronteggiano da un piano obliquo all’altro dei palcoscenici. Arturo Cirillo occupa la scena del Teatro Menotti con nuovi abitanti delle partiture liquide e universali di Williams, dichiarando e praticando un intimismo strutturale che mai scade nel languore, né rischia d’essere fuorviante e forzato.

Il nido tortuoso della famiglia americana, di fatto senza effettiva patria geografica, dalle ossa fragili di Laura e dalla solitudine dei versi nascosti di suo fratello Tom resta invischiato nelle pose apprensive, buffonesche e inopportune della madre Amanda, senza distogliere lo sguardo da un tempo che ha smarrito la sua scansione. Tutto vacilla in un’eterna sospensione dove sempre l’isolamento di Laura, torchiata dalla vergogna della diversità per una malattia che l’ha resa zoppa, o l’aspirazione alla riuscita sociale negli eccessi di Amanda fanno i conti con un’identità paterna inesistente e frammenti di foto e giovinezze mai restituite pendenti dal graticcio.

Le note di Tenco da un mixer a vista come l’armadio spalancato e specchiato in mille riflessi per preparare Laura all’incontro con il bel Jim, amore dell’adolescenza, revocano qualsiasi obbligo di realismo per attraversare a piede libero la lunatica grandezza dello sfacelo e l’evasione onirica della scrittura di Williams. Cirillo non ingombra con sovrastrutture intellettuali un testo che si tramanda per incroci di illusioni e prove di confessione reciproca.

Il corpo emaciato di Laura che Monica Piseddu trascina da un lato all’altro dell’interno semivuoto, solo per far ripartire la stessa canzone, è l’unicorno spezzato dalla prima e ultima vicinanza con la gentilezza di Jim, Edoardo Ribatto, preceduto da una scheggia luminosa dietro una foto appesa. Il suo impeto giovanile è onesto, pragmatico e contrario al solipsismo di Tom, che Arturo Cirillo costruisce piegandolo all’invadenza della madre, nelle efficaci presunzioni di Milvia Marigliano. La memoria di questa famiglia è la richiesta di felicità per i propri figli tra l’argento della luna e un padre assente innamorato delle distanze, tra chi culla i riflessi di vetro e chi è figlio bastardo in balia delle proprie aspirazioni castigate.

I rumori esterni vanno e vengono come le voci nella testa di Willy Loman dal palco dell’Elfo Puccini, un grido insolente a colpi sicuri d’accetta per spezzare le reni a un personaggio che Elio De Capitani affronta con il rispetto dell’autodistruzione e l’osservazione registica che vede ossessivamente scomporsi il ritratto di un’altra famiglia americana. La memoria del tempo e dei suoi risultati in termini di conquista e guadagno morale, oltre che di graduatoria socio-economica, attraversa il dramma di Miller come una mappa di rincorse e concorrenze da diventare matti.

La devozione scomoda di Willy per uno soltanto dei propri figli, Biff, e la proiezione su di lui di tutto quello che dalla premiazione di un sorriso può nascere come merito nella fortezza statunitense del business, si sgretola in continue rivelazioni che costringono a violare il presente con menzogne e una fine predetta. L’alter ego di Willy, la sua pazienza e accettazione del male nascosto, la coscienza dell’affare che non regge più come i mobili di una casa che scompaiono o i debiti assillanti, si risolvono nella permanenza della moglie Linda, madre coraggio cui è concesso piangere e gridare in un monologo finale senza spettatori apparenti.

Il crollo delle bugie di Willy nel sentire di un attore che sa quali misure prendere e insieme accetta che gli sfuggano di mano, proprio come l’istinto a razionalizzare tutto nei ricordi della “gente più bella che c’è”, spingono a un ritorno a casa senza più risposte idealiste. Lo specchio delle valigie sempre in scena come monito, le calze rammendate di Linda, lo strumento primo dei viaggi, che trasforma una Chevrolet rossa in altalena su cui schiamazzano Biff e il fratello Happy, alzano il sipario sull’inadeguatezza di una maschera che ha smesso di cantare e dare istruzioni perché i numeri hanno scalzato l’individuo.

Il luogo della crisi è ovunque si avvertano i sintomi di una famiglia che ha perso il proprio capo e fiero mentitore, qualcuno su cui si abbatte la regola della vendita proficua e che, per non essere più capace di piazzare la merce, è punito con l’isolamento, i prestiti implorati a un fratello che vorrebbe salvarlo offrendogli un lavoro, senza capire che proprio la generosità è bandita dagli spettri di tutto quello che Willy non è riuscito a realizzare.

Così il grido di Biff, la smania da spaccone di Happy, il giudizio del cugino Bernard, la sicurezza tonante del fratello Charlie fanno eco in una squadra d’attori che raccoglie il tormento dell’uno per tutti e sa renderlo esemplarmente bagaglio impossibile quanto l’ammissione determinata del sogno, compagno prediletto di ogni commesso viaggiatore. Dal sorriso di chi piace e sa di piacere cascano diamanti falsi come le risatine di un’amante, e il senso di libertà che la morte procura isola la casa dalle sue stesse mura fondate su una carriera che ha rotto le righe.

TEATRO MENOTTI 

Fino al 26 gennaio 2014

LO ZOO DI VETRO  

di Tennessee Williams

traduzione di Gerardo Guerrieri

con  

AMANDA Milvia Marigliano

LAURA Monica Piseddu

TOM Arturo Cirillo

JIM Edoardo Ribatto

scene Dario Gessati

costumi Gianluca Falaschi

luci Mario Loprevite

assistente regia Giorgio Castagna

assistenti scenografo Elena Beccaro e Denise Carnini

regia Arturo Cirillo 

produzione TieffeTeatro

TEATRO ELFO PUCCINI

Fino al 2 febbraio 2014

MORTE DI UN COMMESSO VIAGGIATORE

di Arthur Miller

traduzione di Masolino d’Amico

regia Elio De Capitani

scene e costumi Carlo Sala

luci Michele Ceglia

suono Giuseppe Marzoli

con Elio De Capitani, Cristina Crippa, Angelo Di Genio, Marco Bonadei, Federico Vanni (sostituito da Massimo Brizi a partire dal 21 gennaio), Andrea Germani, Gabriele Calindri, Alice Redini, Vincenzo Zampa, Marta Pizzigallo

produzione Teatro dell’Elfo

prima nazionale

lo spettacolo è inserito nel programma di “Autunno Americano” del Comune di Milano

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