Perché si è dimesso Stefano Fassina (lasciando di stucco perfino un compagno di corrente come Matteo Orfini)? Sono passati ormai alcuni giorni dall’evento e ancora nessuno ha affrontato in modo puntuale la questione.
Per giorni ha tenuto banco la famigerata battuta di Matteo Renzi (si può ascoltare ancora una volta in questo video). Una battuta sezionata e stigmatizzata in ogni modo in centinaia di post sui social network e in decine di articolesse proclamate nei santuari del giornalismo nostrano. Ok, ci sta. Renzi farebbe bene a governare di più il suo istinto di battutista. Ma davvero si pensa che una battuta faccia dimettere un viceministro? E se davvero fosse così, sarebbe accettabile una motivazione del genere? Ovviamente no, è la risposta ad entrambe le domande. In quanti, però, hanno avuto il coraggio intellettuale di dire: “caro Fassina, un viceministo non si dimette per una battuta”?
Lo stesso interessato, in verità, lo ha chiarito da subito, bontà sua: non è la battuta il motivo delle dimissioni (“la battuta è soltanto la forma”, sigh!). E allora, qual è ‘sto motivo? Di solito, chi ricopre incarichi di Governo si dimette perché incapace di svolgere quelle funzioni, perché ha commesso atti che minano la sua credibilità e la sua integrità, perché non è d’accordo con la linea del Capo del Governo, perché il Governo adotta provvedimenti che mettono in imbarazzo la sua coscienza o le sue convinzioni. Nessuna di queste situazioni si è verificata nel caso di Fassina. Anzi. I momenti di nervosismo vissuti in passato per dissensi con Letta sono rientrati rapidamente, grazie ad un suo maggior coinvolgimento nelle decisioni. Iniziative come l’abolizione dell’Imu – che avrebbero potuto scatenare un conflitto con la linea politico-culturale del viceministro – non hanno scalfito la sua disponibilità a far parte della squadra di governo.
E allora perché si è dimesso Stefano Fassina (proprio colui che, a suo tempo, dopo aver giurato “mai con Berlusconi” poi ci ha fatto un governo, mettendo da parte ogni residua radicalità)? Ce lo spiega lo stesso Fassina una intervista rilasciata al Corriere della Sera il 7 gennaio. L’ormai ex viceministro lo dichiara con candore: per “sciogliere l’ambiguità della posizione della segreteria del Pd rispetto al governo”. Insomma, una roba degna della Prima Repubblica: nessun senso di responsablità nei confronti del Governo, del Presidente del Consiglio, del Presidente della Repubblica. Non parliamo poi dei cittadini italiani ai quali – prima di tutti – dovrebbe rispondere chi ricopre ruoli di governo.
Questioni di politica ‘interna’, dunque. Il viceministro si dimette in polemica con… il suo stesso segretario, che nel frattempo ha vinto le primarie, ma che da quel momento non ha mai chiesto le dimissioni del Governo, né il rimpasto. E, pertanto, non gli ha mai chiesto le dimissioni. In sostanza, Fassina non sente l’esigenza di rispondere a nessuno delle sue dimissioni, se non alla corrente red del suo partito. Una ennesima conferma di quella morale ‘organica’ per la quale presidiare il partito è più importante che governare (in tal caso, addirittura, si tratta di presidiare una corrente, visto che Cuperlo fa il presidente, Orfini potrebbe controllare da solo il gruppo in Parlamento e Renzi può incarnare il doppio ruolo di lotta e di governo). Ora come sempre, il partito ha la precedenza. Il partito è il fine, non è lo strumento. E il governo va bene solo se è… organico al partito.
In fin dei conti, il magma ‘partitolatrico’ che corrode la democrazia italiana è ancora vivo. Grazie alle dimissioni di Fassina – caso davvero paradigmatico – ne abbiamo conferma. Stupisce solo che in questo magma sia travolta anche la gran parte della stampa italiana, incapace di porre la giusta domanda.