Trepidanti siamo accorsi al nuovo rito, al nuovo spettacolo di Pippo Delbono. Attendevamo il suo lavoro, Orchidee, in scena al decapitato teatro Argentina di Roma. Ci siamo preparati emotivamente, dopo aver visto tutti, o quasi, i suoi lavori: dopo esserci emozionati e commossi, indignati e arrabbiati, per anni. Per le sue creazioni strampalate e superbe, umanissime e struggenti, potenti e arrabbiate. E invece no, stavolta non ci siamo lasciati andare: non ci siamo riusciti.
E man mano che avanzava Orchidee, sentivo anzi crescere in me un disagio e una perplessità di cui provo a dare conto, a caldo, come si faceva una volta, ai miei dieci lettori.
Lo spettacolo Orchidee, molto francofono per soli motivi di coproduzione, è strutturato come spesso sono stati i lavori di Pippo Delbono. Lavori in cui si affonda a piene mani nell’emozione, usando senza problemi tutti i classici effetti del teatro: il grido al microfono, il respiro affannato, i contrasti emotivi (che so: la musica a palla e la fissità degli attori), la danza disperata e destrutturata, con quel corpo certo non perfetto, dello stesso Delbono.
Ma gli effetti facevano, per l’appunto, effetto: da uno spettacolo di Pippo Delbono – Barboni o Gente di plastica, Guerra o il più intimo e privato Racconti di giugno, tanto per citarne alcuni – si usciva devastati, divertiti, scossi, spesso con le lacrimone.
Dunque, anche in questo caso, il regista apparecchia una struttura simile: ed è facile rintracciarla, quadro dopo quadro.
Il lavoro si apre con la sua riconoscibile voce, al microfono, che legge l’ormai abituale annuncio contro i cellulari, le foto, eccetera. Da qui si apre una digressione sulla surrealtà di quell’annuncio, sulla inopportuna tendenza, a teatro, a “divertirsi”, a vivere una “piacevole” serata. Il teatro, dice Delbono, non deve essere divertimento, non deve essere piacevole, non deve essere intrattenimento. E sin qui possiamo anche seguirlo, siamo anche d’accordo, da Artaud in poi.
Però, di fatto, Orchidee si declina in una costruzione di numeri sostanzialmente retorici, fatti paradossalmente per una sorta di divertissement tragico-intellettuale: e siamo subissati dalla retorica, con quei video sul fondo e quel magma di citazioni degne del peggior Jovanotti. Dall’eterna polemica contro gli “abbonati”, al racconto della morte della madre (ma poi perché? Caro Pippo, tua madre era con noi, evocata in ogni tuo spettacolo: era parte del nostro affetto per te e ti abbracciamo per la sua scomparsa) che è il drammatico filo conduttore di questo spettacolo.
Ma ecco poi la censura e il Nerone di Mascagni, cantato in playback da un attore down e una attrice; ecco l’evocazione (reiterata) di Pina Bausch; ecco le Br e Enzo Avitabile, poi i Deep Purple e ancora una volta la storia dell’attore Bobò; ecco una serie di frasi da cioccolatini perugina; ecco l’ennesimo gaypride; ecco On the road di Kerouac e l’immancabile Pasolini; ecco Shakespeare – con Romeo e Giulietta urlato al microfono o la morte di Ofelia – e il Giardino dei Ciliegi mentre sul fondo scorrono le immagini di una casa piccoloborghese (quella della mamma?); ecco ancora il mito freak della comunità di Christiana, o l’inno alla Rivoluzione (!) con il rimando a La morte di Danton. Oppure ecco chiamato in causa Leopold Senghor e il racconto tipo “La mia Africa”, con una frase che fa cadere le braccia: “in Africa non avevo nulla e mi sentivo pieno, a Milano avevo tutto e mi sentivo vuoto”. Sono solo alcune delle infinite citazioni di cui è infarcito questo racconto: manca solo “i negri hanno il ritmo nel sangue” o “non esistono più le mezze stagioni” e il repertorio di luoghi comuni è completo.
In mezzo immagini didascaliche (dico “ciliegi” ed ecco per magia i ciliegi, dico Africa e ecco le faccette tristi e intense dei poveri africani); poi corpi nudi di attori danzatori che corrono felici; o corpi segnati dalla magrezza, come quello dell’ex barbone Nelson; corpi abbandonati e ritrovati come quello del muto e a lungo ricoverato in manicomio Bobò; corpi nudi di uomini che si abbracciano.
Il tutto con la pedanteria di chi, questa volta, sembra voler affermare verità assolute, e non porre dubbi, domande, inquietudini. Perché Orchidee pecca, a mio parere, proprio di premeditazione, di emozioni e dolori sfoggiati al mercato della facile commozione, di ricatto morale (e moraleggiante) che gronda retorica inutile in ogni fotogramma.
E ormai suona stucchevole, su tutte, la critica alla borghesia dell’abbonato: forse è una battaglia superata, Pippo, visto che da anni vai con il tuo straordinario lavoro proprio nelle grandi sale dei teatri d’abbonamento. Forse non è più tempo: quell’abbonato di turno A, che tu dileggi, andrebbe quasi applaudito e ringraziato – guarda un po’ – perché continua a frequentare e sostenere il teatro, anche il tuo teatro, pagando di tasca sua. Oppure, se proprio li detesti, basterebbe andare in altri teatri, no?
Allora mi chiedo: a chi si rivolge questo spettacolo? A degli iniziati conniventi? A una intellighenzia borghese di sinistra? Al popolo “rivoluzionario” che frequenta la sala dell’Argentina?
Non so rispondere, Pippo. Uno spettacolo lo possono sbagliare tutti, per carità (e comunque il tuo è un teatro sempre di alto livello). Ma non so, mi spiace. Hai saputo raccontare, forse meglio di chiunque altro, la marginalità, l’Aids, l’abbandono, il dolore, la solitudine. Non so e non posso capire il vuoto che tu, uomo e artista, provi. Ma non ne fare mercimonio; non darci orchidee di plastica, non spacciare modiche dosi di verità, dai.