Uno spettro si aggira per il Brasile e inquieta la classe dirigente di quell’immenso paese, poco più di sei mesi dopo l’onda di proteste di massa che lo hanno percorso ed agitato da Nord a Sud, in occasione della Confederations Cup dello scorso giugno.
Si tratta dei rolezinhos, una sorta di flash mob, convocati attraverso le reti sociali, con cui centinaia, a volte migliaia di giovani delle periferie si danno appuntamento in qualche shopping center, ora di livello medio, ora di lusso, dei tanti templi del consumo di cui sono disseminati le metropoli brasiliane. “Dar um rolé”, fare un giro, è l’espressione con cui gli adolescenti brasiliani si danno appuntamento per trascorrere il tempo libero insieme. Rolezinho allora si potrebbe tradurre con “giretto”, “passeggiatina”.
Ma perché un passatempo apparentemente così innocente si è trasformato in motivo di così grande preoccupazione, tanto da varcare le frontiere del colosso sudamericano (il Financial Times ne parlava così lo scorso 17 gennaio).
La risposta è legata al particolare momento che attraversa il paese, il che – unitamente a certe sue caratteristiche di fondo – ha fatto sì che spontanee iniziative prive di qualsiasi connotazione protestataria assumessero un potente valore simbolico delle divisioni ancora vive in seno alla società brasiliana.
Una dei movimenti recenti che l’hanno caratterizzata negli ultimi 10-15 anni è il prepotente emergere di decine di milioni di cittadini (tra i 30 e i 40, dicono le statistiche ufficiali) da una condizione di povertà ad una di relativo benessere. Con il miglioramento delle condizioni di vita sono venute nuova consapevolezza dei propri diritti (espressi nelle manifestazioni di piazza del giugno scorso), ma anche nuove rivendicazioni di status. La nuova classe media brasiliana da un lato chiede migliori servizi pubblici, dall’altro beni e servizi aspirazionali, che ne sanciscano l’approdo ad un tenore di vita mai sperimentato prima.
Quando però i figli di questa nuova classe media, che magari in percentuale maggiore dei loro coetanei dei quartieri bene sono neri o mulatti, hanno iniziato a presentarsi in massa (centinaia, a volte migliaia di giovani) alle porte degli shopping di lusso di San Paolo, dopo essersi organizzati attraverso reti sociali cui anche loro ormai accedono attraverso smart phone finalmente alla loro portata, la recente memoria dei disordini di giugno, come un riflesso condizionato, ha portato a una reazione sproporzionata di forze dell’ordine e servizi di vigilanza. Ancora una volta – questa è una piaga antica della società brasiliana – i tutori dell’ordine hanno reagito a qualcosa che non capivano con estrema violenza, aggredendo giovani che volevano semplicemente affermare la loro partecipazione al rito del consumo.
La situazione ha visto una rapida escalation: sono scesi in campo organizzazioni antagoniste e movimenti sociali, denunciando le discriminazioni cui erano sottoposti giovani solo in ragione del colore della pelle. Al tempo stesso le ricche società di gestione dei centri commerciali si rivolgevano alla giustizia, chiedendo ordinanze che proibissero i “rolezinhos”. Il risultato è stato il caos: alcuni giudici hanno respinto la richiesta, altri invece l’hanno accolta, dando base legale a quello che di fatto è un atto di discriminazione e arbitrio (come individuo nella folla del sabato pomeriggio il giovane che passeggia con la fidanzata e quello che è lì per partecipare al flash mob? Nei fatti, come spesso è avvenuto, escludendo quello con la pelle più scura e ammettendo quello più chiaro, o meglio vestito).
Insomma la reazione di autorità e proprietari di shopping center ha gettato benzina sul fuoco, il movimento si è esteso a tutto il paese e gruppi di protesta hanno iniziato a denunciare apertamente quello che molti definiscono senza mezzi termini “apartheid brasiliano” (leggi qui).
Non è mancato, a pochi mesi dall’apertura della campagna per elezioni presidenziali fissate a ottobre prossimo, il tentativo di cavalcare a fini elettorali l’inquietudine causata da questi sommovimenti, particolarmente evidente a San Paolo, dove il governatore Geraldo Alckmin è del PSDB, partito di opposizione, mentre il sindaco Fernando Haddad è del PT della presidente in carica Dilma Rousseff.
Com’era da aspettarsi, mentre Alckmin ha inizialmente tentato di cavalcare le paure della cittadinanza, invocando e difendendo la repressione poliziesca (come del resto aveva fatto a giugno), Haddad ha scelto la via del dialogo, individuando attraverso le reti sociali i leader delle manifestazioni e chiamandoli ad un confronto dal quale sono uscite soluzioni che hanno almeno per il momento riportato la pace nei sabati pomeriggio di questa fine estate brasiliana. In attesa che l’avvio della Coppa del Mondo, il prossimo 12 giugno, riaccenda i riflettori sul Brasile, “è probabile che l’onda di eventi finisca”, ha commentato Helena Sthephanowitz di Rede Brasil Atual (leggi qui).