L’onesto JagoRezzaMastrella: tra utopia e eresia

Flavia Mastrella e Antonio Rezza; foto di Stefania Saltarelli Tengono scena per oltre un mese, e con successo, al Teatro Vascello di Roma, Antonio Rezza e Flavia Mastrella. Vogliamo continua...

Flavia Mastrella e Antonio Rezza; foto di Stefania Saltarelli

Tengono scena per oltre un mese, e con successo, al Teatro Vascello di Roma, Antonio Rezza e Flavia Mastrella.

Vogliamo continuare a chiamarlo “fenomeno”? Forse no: che qui di una “realtà” si tratta, e pure esplosiva. Con loro non ci sono vie di mezzo: c’è chi li detesta cordialmente, e chi ride a prescindere. Ma il teatro di RezzaMastrella – tutto attaccato come guidogozzano: sono una entità unica ed è difficile capire dove smetta l’uno e inizi l’altra – è una roba seria e come tale va preso. Un teatro che, oltre l’immediatezza del comico, svela un costante oscillare tra utopia e eresia.

Da oltre vent’anni i due vanno in scena, fanno mostre, libri, film, incursioni corsare attraverso i linguaggi dell’arte e della poesia. Il riconoscimento, forse tardivo, dell’Ubu 2013 sugella dunque un modo di essere eversivi, marginali ma al tempo stesso molto amati e condivisi. Nella Antologica, che giustamente il Vascello tributa loro, si possono vedere le creazioni degli ultimi dieci anni: si concluderà il 19 gennaio, questo lungo percorso, con FrattoX. Intanto, sono andati in scena Fotofinish, Bahamuth e, in questi giorni, 7-14-21-28.

Si diceva utopia e eresia: filosofi di questo tempo disperato e aspro, RezzaMastrella spingono alla demistificazione selvaggia, al parossismo lirico, al flusso di coscienza barbaro e implacabile di un anima spersa e paradossalmente complessa, come è quella dell’italiano medio. La loro utopia è insistere, da sempre, nella loro strada, ostinatamente appartata, ortodossa nell’incedere, e riuscire a raggiungere comunque un vasto pubblico. Il loro è un “cantare” il presente, svelandolo nelle sue interne contraddizioni, sapendo cogliere la ferocia del quotidiano, quella disperazione egoista e macabra di tutti noi, e farne modello derisorio ma empatico: non tanto e non solo un attacco anarchico al “potere” o al “palazzo”, quanto, semmai, un prendersi a schiaffi, reciprocamente e allegramente, tra performer in scena e spettatore in platea.

Gli italiani, si sa, adorano essere fustigati in pubblico e assolti in privato: RezzaMastrella svelano questo meccanismo, in nome di una curiosa “complicità” che affermano e negano in un doppio salto mortale. Fanno intendere, infatti, che non ci sia speranza al qualunquistico “siamo tutti uguali”, e allora usano la mano pesante nel mostrare vizi e piccolezze quotidiani. E fanno ridere, anche tanto.

Poi però, con un surreale e intelligente afflato moralista, moralizzano la falsa morale corrente: si ergono a spietati censori di questo mondo sfatto, sfranto, corrotto, cinico. Lo specchio che porgono al pubblico, tra una risata e l’altra, è di totale crudeltà. Allora non è fuori luogo chiamare in causa il primo Antonin Artaud: non solo per il vento aggressivo e travolgente, di peste, che si solleva dal palco nelle corse folli e nei deliri verbali di Antonio Rezza, ma anche per quel modo selvaggio di usare il corpo come arma.

In Bahamuth, lo spettacolo cui abbiamo assistito dell’Antologia, Rezza è vestito a metà tra il fantascientifico e il rinascimentale; è assistito da due imponenti e agili “servi di scena” in salopette e scarpe da ginnastica, e si muove nello spazio asettico e allusivo creato da Flavia Mastrella. In questo evidente non-luogo, ogni angolo, ogni tessuto, diventa spiazzante verità: svelamento, appunto, dell’indole piccoloborghese, cattolica, benpensante dell’italiano medio o della beghina di paese. Il corpo del performer, allora, si scompone e ricompone in pose innaturali, esasperate, tornando reiteratamente ad alcune “stazioni” dell’habitat scenico che servono anche per identificare altrettanti personaggi di questo racconto a spirale. Rezza tesse continue partiture fisiche sfiancanti, soffocanti, anche per lo spettatore che guarda: è un febbrile correre intorno, un inarrestabile spreco di energie che catturano in un vortice biomeccanico e marionettistico. La maschera del volto – famosa ormai – di Antonio Rezza è la personificazione del disgusto per sé e per gli altri; anche la voce si moltiplica in toni, falsetti, stridii, borbottii incomprensibili, rumori, grida. E in questo pazzo ritmo, si dipana felicemente un testo che chiama in causa il “Manuale di zoologia fantastica” di Borges, declinandolo anche con sonorità dialettali, colloquiali.

E il critico, mentre assiste sgomento e divertito a tutto questo, prende appunti, e mette in conto categorie classiche, come il virtuosismo parodico di Carmelo Bene, o la tragica comicità del migliore Totò: macchine attorali, dunque, e di alta qualità.

RezzaMastrella si mostrano, in definitiva, per quel che sono: antropologi dell’umana tragedia, entomologi del bestiario italiano. Eccola l’eresia, che risiede nel loro essere sempre fuori dal sistema, e saperlo criticare dall’interno. Nel mostrarci per quel che siamo, nel mettere lo spettatore sul tavolo d’obitorio (culturale) e procedere implacabilmente all’autopsia. RezzaMastrella sono fuori dal “mondo” e visceralmente dentro il mondo, capaci di continuare e aggiornare lo stesso discorso critico nell’arco degli anni – attraverso titoli e spettacoli diversi – collocandosi là dove dovrebbe essere la migliore e autentica “satira” (termine, e genere, oggi abusato e inflazionato), da Petrolini in poi: nella scontentezza, nello smontaggio sistematico di ogni possibile “verità” acquisita, nel caustico e felice denigrare se stessi e il nostro tempo pensandone un altro impossibile.

Così l’eresia poetica torna a essere l’utopia rivoluzionaria di cambiare il mondo. Magari semplicemente, con gli strumenti da sempre più efficaci: una risata e una pernacchia.

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