Tra staffette, possibili crisi, rilanci e fibrillazioni dell’agone politico, è stato presentato ieri alla stampa “Impegno Italia”, un documento con cui il Presidente del Consiglio individua alcuni punti fondamentali su cui rilanciare l’azione di Governo. Non è questa la sede per valutazioni di natura squisitamente politica: le prossime ore indicheranno un percorso, quale esso sia, per Parlamento e Governo. A molti ha colpito, tuttavia, che all’interno del documento una sezione sia dedicata alla “Amministrazione Pubblica”, dichiarando che: “Un’Italia più competitiva e giusta impone un deciso ammodernamento della sua PA. Troppo spesso l’attività d’impresa è scoraggiata da strutture pubbliche inefficienti, procedimenti lenti, processi decisionali opachi, servizi inadeguati, anche rispetto alle risorse impiegate. Eppure, le stesse politiche di rilancio finiscono spesso per affidare nuovi compiti e responsabilità agli apparati pubblici. Occorre, quindi, riformare l’amministrazione, a partire dalla dirigenza”. Difficile contestare che il problema della pubblica amministrazione (e delle amministrazioni pubbliche di tutto il pianeta, aggiungerei) è quello dei risultati rispetto alle risorse e, conseguentemente, il livello di servizi che riesce a offrire a cittadini e imprese. Ed è altrettanto difficile contestare che una riforma dell’amministrazione (un blob in costante divenire) non possa non coinvolgere la dirigenza: banalmente, il pesce puzza dalla testa. Non mi stanco mai di ripetere che i problemi di fondo di una pubblica amministrazione sono quelli che ogni grande organizzazione affronta: tuttavia, poiché i finanziatori delle organizzazioni pubbliche sono i cittadini, non servono scuse ma soluzioni, visto che, con l’aggravarsi delle condizioni sociali ed economiche, sarebbe gravissimo fare professione di benaltrismo.
Confesso, però, la mia perplessità nel leggere che occorre “introdurre, analogamente a quanto avviene alla Commissione europea, un sistema di gestione della dirigenza basato su incarichi a tempo determinato con meccanismi di rotazione obbligatoria”. Non solo, infatti, la – sacrosanta – rotazione obbligatoria è già prevista dalla legge anticorruzione del 2012 (art. 1, co. 4, Legge 190/2012), ma vorrei capire meglio cosa si intenda per incarichi a tempo determinato, che sembrano riecheggiare alcune proposte avanzate nel cosiddetto Jobs Act lanciato da Matteo Renzi. Non più dirigenti a tempo indeterminato? Incarichi fiduciari? Dirigenza non di carriera? E se concordo con l’auspicio che occorra “ristabilire una corretta linea di distinzione tra politica e amministrazione”, sembra curioso che ciò debba avvenire “secondo i seguenti principi: a) la responsabilità nella definizione di provvedimenti normativi del governo è del governo e dei ministri, che si avvalgono dei loro uffici di diretta collaborazione; b) le amministrazioni sono tenute, su richiesta del ministro, a fornire elementi istruttori, proposte e pareri, ma non possono interferire nel processo decisionale”. Traduco: le norme vengono scritte nei Gabinetti, senza coinvolgere le strutture, le quali non devono interferire. Significa che abitualmente interferiscono? E come? Ecco, spero di essere smentito, ma a caldo il tono di queste affermazioni mi sembra lasci trasparire l’impotenza di una certa politica che, oggettivamente impantanata, vuole rifarsi su qualcuno. E quel qualcuno, al netto di chi le leggi le scrive, sono quelli che le leggi le dovrebbero implementare. Forse, invece di scaricarsi addosso le colpe per un Paese zavorrato, sarebbe il caso che i pezzi di quel Paese si confrontassero responsabilmente per trovare le soluzioni che servono, senza scappatoie ideologiche o conservatorismi superati dai fatti.
Post scriptum: sono domande e riflessioni che si perderanno nel frullatore politico delle prossime ore, me ne rendo conto: prendetele come esercizio intellettuale. Mi permetto, però, in attesa di climi più salubri, di proporre a chiunque resterà in piedi a reggere il timone di portare a casa un atto concreto, a costo zero, su cui si lavora da tempo. Ci sono 106 ragazze e ragazzi che dallo scorso mese di agosto hanno terminato 18 mesi di corso e tirocinio per diventare dirigenti dello Stato: hanno superato un concorso per accedere alla Scuola Nazionale di Amministrazione, hanno superato esami e hanno fatto uno stage in amministrazioni pubbliche e imprese private. È stato fatto un investimento cospicuo in termini di risorse umane, mezzi finanziari, merito, competenza. In attesa della prossima, epocale riforma della P.A, ed in vista degli impegni che l’incombente semestre di Presidenza Ue dell’Italia richiederà, li lasciamo in panchina o li buttiamo in campo a dare una mano?