Un abile pilota di Formula 1 dà il meglio se può guidare un bolide su una pista da Gran Premio. Ma se lo stesso pilota è a bordo di una utilitaria, arrampicato per dei sentieri di montagna (o tra i palazzi del potere, se preferite), la strategia di guida cambierà radicalmente. La sua libertà, ben al di là del suo valore, sarà determinata dal contesto. E ciò non toglie che il suo valore alla guida possa emergere ugualmente. Anzi, se la prova è più difficile, potrà dimostrare di che pasta è fatto.
E’ quello che è accaduto in queste ore a Matteo Renzi. Una accelerazione improvvisa, in un contesto ostile. Un bipolarismo ‘scoppiato’. Nessuna maggioranza parlamentare coerente. Una legge elettorale dissennata, frutto di una sentenza. Elezioni svolte da pochi mesi, con l’impossibilità di tornare immediatamente alle urne: non certo per i capricci del Capo dello Stato, ma per motivi di ovvio buon senso. Una repubblica parlamentare e proporzionale: la ‘palude’, appunto. Un partito diviso, con buona parte della vecchia guardia che non vede l’ora di far fuori il segretario. Un premier privo di spessore, impalpabile, senza nerbo, in attesa di non si sa che. Le riforme al palo.
Certo, “sarebbe stato meglio se…”, hanno piagnucolato in tanti. Ma questo ‘meglio’ non c’era. C’era un’utilitaria sui sentieri di montagna. Bisognava strattonare, giocare di cambio marcia e di ripresa, azzardare per curve e strettoie. Ovviamente, senza sapere come va a finire e se, alla fine di quella gola, si affaccia un crepaccio.
In politica, non esiste il “sarebbe stato meglio”. Ma non perché la politica sia zozza, sarebbe troppo facile. Non esiste perché non esiste nella vita. Il contesto ti mette di fronte al rischio. E puoi scegliere se affrontarlo. Puoi decidere di seguire chi ti dice “non lo fare”. Scendere dalla macchina e aspettare che qualcuno ti venga a riprendere. Puoi anche dire di no: “grazie dei consigli, vado avanti”. Ma se l’Italia è in questa crisi è proprio per questo: perché nessuno si assume responsabilità, nessuno si vuole bruciare.
Che cos’era, in fondo, Enrico Letta, se non l’ultimo esempio italico di galleggiante della politica? Uomo di relazioni eccellenti, ma privo di contatti con la vita reale e il consenso. Un passato da ufficio studi, ma incapace di tradurre in pratica questo concentrato di scienza. Finto giovane, ma capace di imputarsi senza vergogna un passaggio generazionale che non aveva mai nemmeno concepito. Un anno di governo senza dare segnali di vita. La prospettiva di un altro anno in cui avrebbe dilapidato la residua credibilità trascinando nelle sabbie mobili il suo partito in vista dei prossimi appuntamenti elettorali. Ma davvero c’è qualcuno che crede che tutto ciò potesse andar bene a Renzi? Davvero poteva accettare questa presunta aria zen (una volta si diceva, più banalmente, dorotea) uno che ha puntato tutto sul “carisma del casinaro”?
C’è del metodo in questa follia. Ed una coerenza. Il segretario del Pd è anche il candidato premier. Lo dice lo statuto e lo dice il disegno del partito a vocazione maggioritaria. Il fatto di non aver vinto le elezioni fu un incidente letale, ma sappiamo chi e perché lo provocò. Le primarie del 2013 hanno ristabilito un senso di marcia. Il Pd era e resta comunque il partito di maggioranza relativa, il perno di qualsiasi governo e coalizione, almeno fino alle prossime elezioni: dunque nelle condizioni di indicare il premier. Che, per l’appunto, è il segretario che ha vinto le primarie. Ancora non ne abbiamo certezza, ma chi legge tutto ciò come congiura di palazzo o rievoca le staffette della Prima Repubblica probabilmente sta prendendo una cantonata.
Siamo di fronte ad un azzardo, non c’è dubbio. Basta leggere sui social le convulsioni dei più. Gli innamorati traditi che avrebbero sperato nel cavaliere senza macchia, ma dovranno sorbirsi un cavaliere senza paura. I tifosi che puntavano sull’ascesa di una stella e temono di osservare la caduta di una meteora. I nemici storici, zuppi di perbenismo, che dicono “l’avevo detto io”, felici di dimostrare che di un democristiano si tratta, arrampicatore senza scrupoli. I burocrati del partito che oggi si fregano le mani perché possono provare a riprendersi la ditta. Renzi li avrà letti tutti, questi commenti. E poi ha staccato il collegamento. Perché aveva la responsabilità di decidere in proprio. Quando verrà il redde rationem elettorale, dovrà rispondere lui, mica i commentatori del giorno dopo, né i militanti delle opposte fazioni, né gli attivisti digitali. Insomma, meglio non fidarsi degli psicodrammi dei burocrati nonchédella stessa base, avrà pensato (temo a ragione, ormai, ma questo è argomento che meriterebbe un altro pezzo…).
Dall’8 dicembre in poi, Renzi aveva lanciato un paio di bombe sul governo Letta: le riforme istituzionali e il Jobs Act. Due temi sui quali, come al solito, circolavano molti saggi e documenti, ma nessuna soluzione. Non puoi tenere quel ritmo facendo solo il segretario del partito. Se vuoi procedere su quei sentieri e trovare l’uscita devi farlo da premier. Letta non ha capito nemmeno questo. E mentre veniva rottamato si è auto inflitto l’ultima umiliazione: un documento di programma scopiazzato da quello del suo segretario, mostrato fuori tempo massimo come un pivello alle prime armi.
Dai su, ragazzi, tempus fugit. Il bimbaccio funziona solo se corre come un forsennato. Anche se i sentieri sono stretti e rischia di andarsi a schiantare. Ma a chi conviene che finisca male?