Di nuovo siamo ad un punto di svolta, e ci siamo arrivati senza essere preparati…
Molte volte le parole ci ingannano. Se usate male, creano in noi un’immagine del mondo che spesso non rispecchia la realtà. Mille e più filosofi si sono districati per capire come la realtà e la nostra rappresentazione del mondo divergano, visto che non coincidono mai. Lascio alla curiosità del lettore l’approfondimento del tema filosofico.
Qui mi preme analizzare una rappresentazione che abbiamo dell’Italia: quella di potenza economica.
Per carità, molti hanno da tempo iniziato a dubitare della nostra solidità economica, eppure durante le recenti discussione sulla nuova ondata di delocalizzazione delle imprese, sulla fuga dell’Italia della FIAT (e le frasi stupide di uno dei suoi amministratori nato fortunato), su quella Grande Bellezza che è più un ricordo che altro, politici, imprenditori, attivisti si sono affrettati a mitizzare un Paese che stando ai numero sarebbe allo sbando
Prendiamo alcuni indicatori comuni.
Il PIL del nostro paese. Nel 2012 eravamo 9° al mondo. Niente male.
Se andiamo a valutare il PIL pro-capite (ovvero quanto reddito ogni cittadino, in media, ha prodotto), passiamo dal 9° al 26° posto.
Andando a vedere i dati del HDI (indice di sviluppo umano), un indice composito che considera il Pil pro-capite, l’aspettativa di vita alla nascita e il grado di scolarizzazione, si conferma la posizione, 25°, subito dietro a Slovenia, Spagna e Liechtenstein. Anche in questo caso, un buon piazzamento, a meno che non si vada ad indagare il dettaglio.
Infatti, un clima ottimale, una buona dieta e una buona sanità fa sì che secondo l’OMS siamo l’8° paese con l’aspettativa di vita più elevata al mondo (il 2° fra i paesi popolosi, dopo il Giappone). Per cui, 26° nel reddito pro-capite, 8° (o 2°) nell’aspettativa di vita, è chiaro che ciò che ci frega è l’istruzione. Stando ai dati dell’HDI i cittadini italiani sopra i 25 anni una media di istruzione pari a 10.1 anni. Facendo due conti, in media ci fermiamo al 2° anno di superiori (5 di elementari, 3 di medie, e 2 di superiori): insomma, l’attuale forza lavoro non è molto colta: in Norvegia (posizione numero 1), la media è di 12.6. Pure in Spagna la media è più alta (10.4).
Certo, ciò che conta non sono solo gli anni di studio, ma anche quanto si apprende.
Sempre secondo l’HDI, i nostri nuovi studenti (un bimbo che ora ha 5 anni) studierà per 16.2 anni nella sua vita. Ma studierà male, in scuole fatiscenti che chiedono denaro alle famiglie degli studenti per molti servizi base. Scuole che formano maluccio, oltretutto.
Stando agli ultimi dati PISA-Oecd sulla qualità dell’istruzione, l’Italia è 34°. Si obietterà che ci sono grandi disparità fra regioni: e allora? Un Paese si giudica nel suo insieme, non facendo i dovuti distingui. Anche perché inevitabilmente si trionfa e si affonda insieme. E non pare che recentemente il Nord abbia brillato più del Sud: secondo lo studio di Inforegio (RCI 2013) l’attrattività territoriale di tutte le regioni italiane è sceso.
A livello istituzionale nulla brilla.
L’Open Budget Survey della World Bank posizione l’Italia 24° (2012) nella classifica dei paesi che offrono maggior trasparenza nei processi decisionali degli enti pubblici. Per intenderci, siamo dietro Russia, Bulgaria, Uganda (Gaber: “lo Stato peggio che da noi solo l’Uganda!”) e Portogallo. Siamo giusto una posizione davanti all’Afghanistan. Non è difficile da comprendere come mai la percezione del grado di corruzione del nostro paese sia così alto: secondo il Corruption Perception Index, siamo il 69° (su 177) paese più corrotto del pianeta, subito dietro l’Arabia Saudita, la Giordania e il Montenegro.
Anche il World Economic Forum, nel suo Competitiveness Index, non sembra trattarci meglio. A livello di competitività economica siamo 49°, tra la Lituania e il Kazakistan, non certo sul palco reale.
Cosa ci rende poco competitivi? Le solite cose: pessime istituzioni (102° su 148), ovvero l’insieme delle leggi e degli enti che assicurano una protezione efficace agli investitori, e un ambiente macroeconomico in difficoltà (101°) fatto di alto debito pubblico, poco credito, spesa pubblica in ritirata.
E così, gli indicatori di “Doing Business“, della World Bank, decretano che ci sono ben 64 paesi migliori di noi in cui fare impresa (tralascio i nomi, sarebbe imbarazzante pensarci dietro la Bielorussia o le isole Fiji). E, d’altronde, perché posizionare un’azienda in un Paese la cui velocità media di download per le famiglie è di appena 7 mega al secondo (90° in classifica, dietro Bielorussia, Romania, Armenia o Trinidad e Tobago)? A Honk Kong, primi in classifica, la velocità media è 10 volte più elevata (70 mega al secondo) quando in Romania è di 56 mega al secondo, in Slovenia 14 mega al secondo. Altroché progetto Banda Larga!
Ed è un peccato, perché secondo l’istituto che si occupa di studiare la complessità dei sistemi economici (The Observatory of Economic Complexity), l’Italia è un paese molto articolato e con forte potenzialità. Ma senza buoni strumenti, anche un genio si arena.
Insomma, in Italia abbiamo troppa corruzione, regole borboniche e un ambiente sfavorevole all’impresa e un sistema educativo che cerca in tutti i modi, fra un taglio e l’altro, di far fronte all’emergenza. Insomma, dal punto di vista economico, il Paese non brilla, anzi.
Purtroppo, anche dal punto di vista sociale abbiamo grandi limiti.
Intanto la nostra società è fra le più discriminanti per le donne. Siamo 80°, fra il Perù e l’Ungheria, diverse posizione sotto la Croazia, la Serbia, la Bulgaria o la Russia. La discriminazione demoralizza la volontà di far valere le competenze del discriminato, dimenticandosi che una distribuzione casuale quasi archetipica è proprio quella dei talenti: quante capacità abbiamo sacrificato fra il CIF e le patate al forno nelle case italiane?
Poi non abbiamo il coraggio di guardare in faccia la realtà: secondo il Reporters Without Borders World Press Freedom Index, nel 2013 ci siamo piazzati 57° come libertà di informazione. Certo, siamo migliorati di 4 posizioni rispetto al 2012: evviva!
In Italia si informa poco e si informa male: questo è il meccanismo che più inficia la voglia degli italiani di riprendersi. Senza una corretta informazione, non si troveranno mai soluzioni adeguate. E la colpa di questa rumoroso silenzio non è solo della politica: se tutti guardiamo la TV e la usiamo come strumento re dell’informazione e se spendiamo poco in cultura non “è sempre colpa di Berlusconi che ha 3 televisioni” (non è un caso, forse, che le regioni in cui si leggono di più i quotidiani siano le regioni che potremmo definire economicamente e socialmente più sane…).
Da tempo si dice che il PIL non vale più come indicatore di benessere. E’ vero. Prendendo sul serio l’affermazione, concluderei che tutti questi indicatori dimostrano come siamo diventati un paese molto più arretrato di quanto il PIL voglia mostrarci.