“Il nastro bianco” di Michael Haneke

Quando nel film V per Vendetta il ‘terrorista noto col nome di V’ arringa la folla londinese dagli schermi pubblicitari di Piccadilly Circus, pone alla gente una domanda molto semplice, dopo aver e...

Quando nel film V per Vendetta il ‘terrorista noto col nome di V’ arringa la folla londinese dagli schermi pubblicitari di Piccadilly Circus, pone alla gente una domanda molto semplice, dopo aver enumerato le atrocità perpetrate dal regime che governa l’Inghilterra nella fictio distopica che stiamo vedendo: “Chi è da biasimare, chi dobbiamo incolpare, per tutto questo? Non abbiate paura di farlo: guardatevi allo specchio.”

Sembra essere questo anche il messaggio che vuole trasmetterci Michael Haneke (Funny Games), regista del film Il nastro bianco (Germania 2009), premiato, tra gli altri riconoscimenti, anche con una meritatissima Palma d’Oro al Festival di Cannes.

Questa scabra pellicola in bianco e nero, dalle luminosità volutamente disturbanti, intrisa di un indefinibile senso di minaccia e insicurezza incombenti, così cruda pur senza mostrare nulla (pochissimo sangue e pochissimo sesso) sembra puntare il dito contro di noi, contro noi tutti come ‘società borghese’, responsabile del totalitarismo di qualsiasi colore.

Storia o trama, a dire il vero, non ce n’è. Più che altro, ci sono avvenimenti sparsi attraverso i quali lo spettatore, piano piano, si fa strada cercando di dar loro una logica composizione formale. La scena è quella di un villaggio campagnolo del Nord della Germania, Eichwald (e alcuni critici hanno voluto vederci la contrazione dei nomi Eichmann e Buchenwald), un piccolo centro rurale dominato dal Barone (Ulrich Tukur), dal Pastore Luterano (Burghart Klaussner), dal Dottore (Reiner Bok) e, seppure in tono assai minore, dal Maestro di scuola (Christian Friedel). Un villaggio come tanti, la vita scandita dal progredire della stagione agricola.

Eppure, da subito, si ha l’indefinibile e irrazionale impressione che qualcosa di sinistro incomba sulla comunità. In questo, fa pensare al villaggio di The Village del regista indo-americano Shyamalan. Ben presto, questo indefinito senso di disagio diviene presentimento e, in un climax ascendente ma mai tragico, una certezza: cominciano a verificarsi strani accadimenti, difficilmente collegabili epperò sostanzialmente simili.

Il Dottore cade da cavallo e poi si scopre che vi era una corda tesa nel suo giardino; il figlio del Barone, Siegy (Fion Mutert), viene trovato semi incosciente dopo essere stato frustato; la finestra della cameretta dove dorme l’ultimo nato dell’Intendente del Barone viene lasciata aperta e il piccolo quasi muore assiderato; il granaio del Barone viene dato alle fiamme; il figlio storpio e ritardato della levatrice viene torturato e per poco non perde la vista.

Piano piano ci accorgiamo che questi fatti sono lo scheletro intorno al quale il regista costruisce un ambiente, un teatrino degli orrori in cui i veri orrori non sono – sembra un paradosso – gli eventi singolari che si verificano ma la agghiacciante routine bestiale che domina il paesino. Il Dottore che, in una scena vedo/non vedo, sembra abusare della figlia adolescente; le angherie che i braccianti subiscono dall’Intendente del Barone; la morale inflessibile del Pastore che si flette sempre e solo per giustificare i figli; l’Intendente che riserva ‘attenzioni particolari’ alla giovane governante del Barone.

Infine, pur senza giungere ad una definitiva soluzione dei ‘casi’ in questione (nemmeno la Polizia sembra riuscire a venirne a capo), il film termina con la dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia e con un confronto rivelatore tra il Maestro – che i ‘suoi polli’ li conosce bene e comincia a nutrire fondati sospetti – ed il Pastore che difende i figli, essi stessi capaci di mostrare al giovane insegnante delle vere e proprie facce di bronzo, impenetrabili e severe, degne del miglior Collaborazionismo che vent’anni dopo avrebbe caratterizzato praticamente il 99% dei Tedeschi (e degli Italiani).

Già perché alla fine, il dubbio, ce lo teniamo pure noi pubblico che invece la verità l’abbiamo ben intesa: un gruppo di ragazzi, i ragazzi normali, i ragazzi di tutti i giorni, i ragazzi medi (socialmente e culturalmente), si fanno giustizieri, nel villaggio di Eichwald, secondo un loro personale concetto di espiazione, vagamente ispirato alla morale luterana del Pastore (da cui il nastro bianco del titolo): va punito il Dottore, reo di aver abusato della figlia e di intrattenere una relazione adulterina colla levatrice; va punito il figlio del Barone, colpevole di essere se stesso, un diverso in quanto socialmente superiore; va punito il neonato dell’Intendente, ennesima bocca da sfamare in una famiglia già numerosa; va punito il Barone, in quanto superiore a tutti loro e sciolto dalla stringente e severa morale borghese che domina il villaggio; va infine punito il povero Karli, il figlio storpio della levatrice, in quanto ritenuto il degenere risultato della relazione adulterina che questa intratteneva col Dottore e, poiché ritardato, simbolo del diverso par excellence.

In effetti, quasi tutti i critici hanno rilevato come al regista prema farci notare il quasi diretto legame di filiazione esistente tra la Germania guglielmina della vigilia del conflitto mondiale e la Germania del Cancelliere Hitler: molta ideologia Nazionalsocialista si nutriva, senza nemmeno nasconderlo, dell’ossessivo militarismo prussiano da un lato (e bene lo mostra Stefan Zweig ne Il mondo di ieri) e della ferrea morale luterana dall’altro.

Ma c’è di più, e per capirlo bisogna tornare alla frase ad inizio articolo. Che il Nazismo – come pure il Fascismo (con buona pace di Benedetto Croce), – non fosse un’astronave cattiva atterrata nella Germania dei grandi filosofi dell’Ottocento già lo sapevamo. Ciò che Haneke fa, di rivoluzionario, è piuttosto puntare il dito contro un preciso tipo social-culturale: la società borghese, la società media, la società degli uguali o, se si vuole e per capire meglio, dei conformi.

Ecco che allora i ragazzini che perseguitano il povero storpio perché lo “vogliono aiutare” (e non era la frase che si diceva anche degli Ebrei, degli Zingari, dei paralitici: che il pietoso Governo Nazista voleva, appunto, ‘aiutarli’?) sono l’incarnazione, quasi unipersonale, di quel morboso ceto medio che dal ciabattino al grande industriale identifica nell’adesione la sua precipua regola di vita e la sua ragion d’essere.

Tutto ciò che esula dalla normalità, dalla medietà – si tratti della malformazione del povero Karli o della libertà sessuale del Barone (entrambe hanno la colpa di essere ‘gridate’ e visibili erga omnes) – viene percepito come dannoso per la comunità che accetta la deviazione purché sia invisibile. Purché non implichi una presa di posizione visibilmente diversa rispetto a quella della comunità tutta.

E d’altra parte, sintomatica è la scena in cui Siegy, il figlio del Barone, è sdraiato sulle rive del laghetto coi due figli dell’Intendente: loro si stanno intagliando dei flauti di fortuna con delle canne, peraltro con scarso successo, mentre Siegy sta suonando pacifico lo zufolo che il superiore potere economico del padre gli ha assicurato. Frustrati dagli sforzi inutili, alla fine i figli dell’Intendente strappano di mano lo zufolo a Siegy e gettano il bambino nel laghetto, scena sin troppo allusiva di quel che farà il Nazismo con la vecchia classe dirigente degli junkers.

Sottile poi la precisazione ulteriore: tornati a casa, i figli dell’Intendente subiscono le vergate del padre, a sua volta sgridato dal Barone per l’intemperanza della sua prole. Lo sguardo feroce che il figlio rivolge all’Intendente chiude in sé tutta la rabbia della futura generazione nazista che a dei padri ‘asserviti’ all’ordine costituito – Dio, Imperatore, Famiglia – vogliono sostituire il Nuovo Ordine della rivoluzione. “Noi stiamo costruendo la nuova Germania” recita il cugino nazista dei baroni Von Essenbeck ne La caduta degli dei di Luchino Visconti.

Se, come molti commentatori fanno notare in questo periodo, il 1914 fu per l’Europa l’inizio della fine, sembra altrettanto evidente che per Haneke esso rappresenti anche il compimento dell’emancipazione della classe borghese cominciato colla Rivoluzione Francese, processo da cui, si potrebbe inferire per deduzione, deriveranno tutti i totalitarismi novecenteschi che dello sforzo di adesione della piccola, media e grande borghesia hanno sempre fatto la spina dorsale delle loro azioni.

Se il bravo avvocato, commerciante, industriale che viveva a due kilometri da Bergen-Belsen, agli americani che lo interrogavano dopo il ’45, usava rispondere “non ne sapevo nulla, credevo che in quei campi stesse chi non trovava lavoro”, giova forse ricordare, vieppiù, che il capo della rivolta che nel ’44 tentò di deporre Hitler si chiamava, forse non per caso, Von Stauffenberg.

Il film non offre speranze, a dire il vero, a meno che per speranza non si intenda la fuga. Ci mostra, piuttosto, due (forse) inevitabili sconfitte: da un lato quella del Barone, rappresentante della vecchia classe terriera, che ormai ha perso il controllo del ‘suo’ villaggio e dall’altro quella del Maestro, costretto a emigrare, figura che infine rappresenta la sconfitta del dissenso e del Libero Pensiero.

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