L’innesco di una parola può scatenare ritorsioni perenni, sconvolgere relazioni al punto da condizionarne l’esito e la permanenza. Lo stesso può dirsi dell’identità, quando valica il confine dell’accettazione sociale e si fa lentamente sempre più scomoda e impropria, meglio adatta a un’altra vita e a un’altra rete di legami ed equilibri. A quel punto, il nodo tra una frase e un’esistenza più o meno adeguata, che finisce per annullarsi piuttosto che scovare soluzioni, è davvero stretto.
Nella trilogia composta da Neil LaBute sul conflitto personale il terzo atto di Reasons to be pretty sottintende il vincolo tra un fiume in piena di rivendicazioni, false promesse e ricordi mancati e l’istantanea più riflessiva di monologhi in cui ciascuno dei quattro protagonisti si specchia nelle proprie difformità e aspirazioni. La resa italiana di Pretty – Un motivo per essere carini percorre a temperatura alta dalla prima scena il racconto di due coppie sottomesse a discussioni interminabili sul limite della vacuità.
La regia di Fabrizio Arcuri si conferma fedelissima a una piattaforma scenica che gira su se stessa, come all’utilizzo di video non sempre fondanti per rimarcare l’esterno di una città che si muove coi personaggi intenti a strafogarsi di rabbie e bisogni non intercettati. Così l’ironia amara e lo struggimento nascosto di Fabrizia Sacchi e Filippo Nigro – rispettivamente Steph e Greg – si rivelano tanto più convincenti in un turbine verbale che vorrebbe far sì che l’uno annegasse nell’altro. E, in fondo, ci riuscirebbe, se non venisse distratto dall’invadenza di pupazzi o finte carcasse da macello per incorniciare, senza peso drammatico, l’ambiente di lavoro in cui oltre alla casa e ai locali si consumano battute a raffica.
Di diverso spessore, troppo facilone ed epidermico, il ritratto dell’altra coppia divisa tra bugie e forme smaglianti: Giulio Forges Davanzati e Dajana Rancione – rispettivamente Kent e Carly – non riescono a fare da contrappeso, scadendo proprio nel rischio principale della drammaturgia di LaBute: quell’inconsistenza contraddetta in parte dai discorsi individuali, dove ciascuno affronta la propria dipendenza tossica dalle apparenze, dalla considerazione del partner e dal senso di una normalità che può persino offendere, se rapportata al termine alto e inestinguibile di una bellezza da difendere e dichiarare.
Sono tracce ben scorporate dallo sforzo di provare a riparlare davvero di sentimenti, meta che pare essere stata accantonata da troppe scene. Il che rimette in gioco la stratificazione dell’identità, il suo peso in termini di passato, colpe, facili esaltazioni o spegnimenti derivanti dalle disillusioni. La nuova produzione del Teatro Filodrammatici, Mattia – A life changing experience, di Bruno Fornasari chiama in causa non soltanto lo spunto pirandelliano, con i suoi effetti collaterali di coinvolgimento diretto del pubblico e rimescolamento dei ruoli, ma il bisogno di rendersi irreperibili in un’era che domanda troppo. Un corso e un ricorso storico di eccessi intrisi della paura di morire e perdere il poco faticosamente conquistato come scarsa misura di un matrimonio di convenienza e di amici traditori.
Non si tratta però di un piagnisteo, ma di una visione teatrale che qui emula più generi, a partire dalla staffetta americana dei film d’azione o delle pellicole più seriali in cui l’eroe decaduto è circondato da una schiera di antieroi complici o amanti sfuggenti quanto i beni che crede di possedere. Così, tra una coreografia di loschi figuri e la sparizione di Mattia concordata a tavolino per non incorrere in un catastrofico crash finanziario, ma investire tutto su una generosa assicurazione per la vita, le parti coinvolte e compromesse sono le stesse che scompongono l’intreccio in flash-back e sequenze di racconto collettivo, dove risaltano massime tratte da L’arte della guerra di Sun-Tzu e considerazioni sul godimento effimero che sferra sempre l’attacco all’acme del piacere.
Le tipologie di umanità oppresse dal proprio stato di crisi e la riscrittura della scomparsa di Mattia attraverso una postazione di copertura da perfetto skip tracer ritrovano però un colpo teatrale a effetto nei monologhi che Tommaso Amadio ritaglia attorno alla faccenda semiseria del fu Pascal. Il dettaglio sanguinario della cravatta colombiana, il destino scelto e trafugato alla scrittura delle cose, la memoria di un orologio donato dal padre e la meccanica del dettaglio della propria fine declinano molti silenzi sospesi su cui si vorrebbe proseguire nell’ascolto, magari spendendo meno energia nella performance, che pure è vitale al ritmo e al puzzle d’insieme. Tra vincitori e vinti sopravvivono speculatori nonché prove fallite di gabbare la ribalta tornando sotto spoglie virtuali.
Fino al 23 febbraio 2014 – Tieffe Teatro Menotti
Pretty – Un motivo per essere carini
di Neil LaBute
con Filippo Nigro, Fabrizia Sacchi, Giulio Forges Davanzati, Dajana Roncione
regia Fabrizio Arcuri
produzione Compagnia Gli Ipocriti
Fino al 9 marzo 2014 – Teatro Filodrammatici
Mattia – A life changing experience
ispirato a Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello
di Bruno Fornasari
regia Bruno Fornasari
con Tommaso Amadio, Marta Belloni, Matthieu Pastore, Valeria Perdonò, Michele Radice movimenti/vocals Marta Belloni
scene e costumi Erika Carretta
disegno luci Enrico Fiorentino
suono Andrea Diana
responsabile di produzione Martina Merico
assistenti alla regia Riccardo Buffonini, Beppe Salmetti
assistente di produzione Irene Prayer Galletti
produzione Teatro Filodrammatici