Nei panni di una rossaLe dieci cose che ho imparato sullo #smartworking

Le dieci cose che ho imparato sullo smartworking durante la Social Media Week. Un tempo c’era il telelavoro. Oggi questo termine, che descrive il lavoro da casa o comunque "da remoto", sembr...

Le dieci cose che ho imparato sullo smartworking durante la Social Media Week.

Un tempo c’era il telelavoro. Oggi questo termine, che descrive il lavoro da casa o comunque “da remoto”, sembra appartenere all’età della pietra. Questa formula contrattuale non è mai realmente decollata in Italia, e la normativa che la regolamentava nel frattempo è diventata obsoleta, causa uno sviluppo tecnologico cresciuto in poco tempo a ritmi esponenziali.

Oggi, il telelavoro si chiama – molto più figamente – smartworking, o lavoro agile se proprio non vogliamo cedere agli inglesismi, e sta diventando un tema sempre più caldo: in Parlamento è stata da poco depositata una nuova proposta di legge nazionale che lo regolamenta in base allo scenario sociale e tecnologico attuale.

Si è parlato di smartworking in una conferenza dedicata della Social Media Week, con particolare riferimento al ruolo che i social network hanno nello smartworking.

Ecco le dieci cose che ho imparato:

1) Per smartworking si intende un modello che prevede la riprogettazione di leve tecnologiche, organizzative e gestionali, che possono essere raggruppate in tre categorie fondamentali: bricks, ovvero il layout fisico degli spazi di lavoro; bits, ossia la capacità di sfruttare le potenzialità delle tecnologie digitali per il ripensamento dello spazio virtuale di lavoro; behaviours, in termini di stili di lavoro e policy organizzative, cultura del top management e comportamenti delle persone.

2) La proposta di legge sullo smartworking – come ha spiegato Alessia Mosca, una delle sei relatrici della conferenza, capogruppo PD della Commissione per le Politiche Europee – è stata riscritta dopo una prima versione grazie ad una consultazione pubblica. La nuova legge punta ad un adeguamento, almeno normativo, alle nuove tecnologie, secondo il principio che “lavoro non equivale più allo stare in una postazione fissa“. Lo smartworking non a caso si chiama anche lavoro “agile”.

3) Lo smartworking non riguarda solo le donne. Anche perché, non è che dopo aver tanto lottato per ottenere una pseudo parità con gli uomini ci ritroviamo a lottare di nuovo per poter lavorare da casa, alternando conference call a lavatrici? – è il questito che pone il vicedirettore del Corriere della Sera Barbara Stefanelli. Si pensa sempre alle donne con figli come esempio di possibili smartworker, ma il lavoro smart ben si adatta anche ai profili senior: con l’allungarsi dell’aspettativa di vita infatti non c’è più solo la necessità di avere tempo per i propri figli, ma anche di averne per i genitori anziani. E ovviamente calza a pennello anche sui giovani, la generazione di nativi digitali.

4) Eppure, questo tipo di  lavoro non può riguardare la totalità del tempo, altrimenti si rischia la segregazione! Ci vuole una flessibilità orizzontale o verticale: ad esempio, lavorare da casa un giorno a settimana o alcune ore al giorno.

5) Lo smartworking deve migliorare la produttività di tutta l’azienda: la nuova produttività si deve basare sugli obiettivi da raggiungere e non sul  numero di ore che si trascorrono alla scrivania, onde evitare il paradosso di incatenarci al giochino perverso di chi per ultimo spegne la luce dell’ufficio la sera.

6) L’autodeterminazione è troppo importante per rinunciarvi: lavorando smart si possono “guadagnare” anche due ore di tempo libero al giorno. Questo è emerso durante la giornata di sperimentazione sullo smartworking a Milano, lo scorso 6 febbraio. Il traffico per le strade diminuisce e i pendolari risparmiano in media 56 km di strada al giorno. Chiara Bisconti, assessore al benessere, qualità della vita, sport e tempo libero del comune di Milano, propone di istituire una giornata settimanale di lavoro smart.

7) Conseguenza diretta dello smartworking è quella di avere una mentalità costante da startup – dice Paola Cavallaro, ad di Nokia. Questa è una delle osservazioni che più hanno ‘agganciato’ la mia attenzione durante la conferenza. L’approccio nordico – paradossalmente – sul lavoro è più flessibile del nostro: non cartellini da timbrare ma più fiducia nel lavoratore. E se c’è una persona che se ne approfitta sarà ampiamente compensata da altre dieci che, entusiaste delle condizioni positive, avranno una maggiore produttività. La mentalità non è più quella di arrivare in ufficio e pensare a come fare per ‘faticare’ il meno possibile, ma tutto diventa più motivante e dunque gratificante: finisce che ai nostri progetti ‘smart’ dedichiamo molto più di quanto faremmo nelle canoniche otto ore di ufficio, ma distribuendole in maniera più libera nell’arco delle nostre giornate la produttività migliora. Perché ciò funzioni però non bastano le tecnologie, ci vuole una cultura della responsabilità dietro. In Italia, invece, gli smartworker si sentono miracolati e temono che a sbandierare troppo la soddisfazione per l’isola felice in cui si trovano rischino di vedersela portare via!

8) Per le donne, meno abili degli uomini nel costruire i classici schemi basati su clientelismi e giochi di potere, lo smartworking è una forma di lavoro che permette una reale valutazione sulla base dei risultati, fa notare Rita Querzé, giornalista esperta di tematiche legate al lavoro.

9) I costi dello smartworking sono sostenibili: si tratta di una leva da poter usare senza grande investimento pubblico. Semmai, in Italia siamo indietro sulla diffusione della banda larga, che un po’ ci penalizza anche in ottica di smartworking.

10) Lo smartworrking – si rassegnino i suoi detrattori – è inevitabile: così come in ogni settore della nostra esistenza stiamo andando sempre più verso la costruzione di palinsesti personalizzati,  anche lo smartworking è una sorta di palinsesto della nostra sfera lavorativa, spiega la sociologa Monica Fabris. Come la dieta, come i programmi tv: sempre più ci costruiamo le nostre griglie adattate a quelle che sono le nostre personali esigenze. Ci stiamo disancorando da tutto quanto è prestabilito e vincolante dell’individualità. Il rischio potrebbe essere quello di perdere il senso della collettività in generale o del team aziendale, ma come spiega bene la Fabris, le ritualità collettive finiscono sempre per ricostruirsi spontaneamente: che sia il live twitting di un programma TV o i pasti consumati sempre più fuori casa come occasione di socializzazione. Nell’ambito del lavoro smart si possono istituire ad esempio gruppi Facebook dedicati, sessioni video via Skype e poi, in ogni caso, mantenere imprescindibili riunioni in azienda o momenti in cui tutto il team sia fisicamente presente.

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