Io non c’ero quando Tadeusz Kantor presentava La classe morta. E non c’ero nemmeno per Wielopole Wielopole. In tanti non c’eravamo. Poi, certo, abbiamo visto i video, sentito i racconti, letto le recensioni. Però quelle sensazioni lì, quelle provate da chi era in sala, non possiamo saperle.
Ma sappiamo quelle di Emma Dante, che con Le Sorelle Macaluso tocca probabilmente l’apice del suo feroce, ossessivo, struggente percorso di ricerca lungo oltre dieci anni. Abbiamo conosciuto tutte le tappe di questa inesorabile e asfissiante via crucis personale e teatrale, che la regista ha condiviso attraverso spettacoli di abbacinante bellezza: abbiamo visto officianti cambiare, ma rimanere immutato il dolore. Il teatro di Emma Dante – certo teatro, ovviamente non tutta la sua produzione – è forse il più alto tentativo di coniugare, di declinare, di immaginare una possibile Classe morta di oggi.
Un rito, che è privato e collettivo, condiviso e oscuro, magmatico e semplicissimo: di oggi, di noi; diretto nella sua ferocia, dolcissimo nello struggimento; delicato nella memoria.
I morti, per Emma, sono là: presenti e vivi, in scena, come lo erano quei “sei personaggi” che apparivano dal buio evocato dal suo conterraneo don Luigi della contrada Caos, o come erano i poveri protagonisti della Classe kantoriana con i loro fantocci. Non sono funzioni teatrali, non sono personaggi, quelli di Emma, ma memorie, schegge di un passato che non è mai tale. Così, ne Le sorelle Macaluso, il passato delle morti, di tante morti, viene rivissuto in scena, come presente assoluto.
È semmai “aoristo”, tempo della tragedia greca che l’occidente ha perso: il tempo indefinito del passato, capace però di connotare certi accadimenti, certi avvenimenti. Se nell’imperfetto il presente da cui si guarda viene ricondotto al passato, nell’aoristo, il passato viene ricondotto al presente, riattualizzato nel presente. È la memoria che non passa, è il ricordo cui non si sfugge. E pure l’ennesimo funerale è una scoperta dell’istante, di quell’attimo di consapevolezza cui la “vittima” non si vuole rassegnare.
Lo spettacolo è di rara e nitida bellezza.
Vi è, subito, un omaggio ironico e macabro al teatrino dei Pupi – segno, quasi rivendicazione ironica, della separatezza, della provenienza, ma anche marchio del destino di ciascuno: non sono i fili delle Parche a tessere la sorte di ciascuno, semmai più prosaicamente fili invisibili di un puparo nascosto, che muove tutti come burattini nel teatrino della vita e della morte.
Poi, da qui, si snoda sottile la vicenda familiare: ancora nella famiglia affonda lo sguardo di Emma Dante.
E dal buio assoluto provengono quelle figure, quei “parenti”, che di lì a poco illumineranno il palcoscenico. Vengono dal nulla, dall’ombra, da una oscurità che è non solo individuale, ma anche sociale, culturale. Sono figurette di marginalità, di sottoproletariato. Si esprimono nel dialetto – cui ormai Emma ci ha abituato – che è lingua di distanza e di appartenenza, di magia e di volgarità. Hanno corpi normali, segnati. Eppure illuminano, scintillano nel loro procedere ritmato (è la “schiera”, il famoso esercizio guida da cui partono tutti i laboratori e i lavori di Emma Dante). Nonostante l’immediatezza del rito, qui la religiosità – che in spettacoli precedenti era pervasiva e opprimente – è appena evocata da un crocifisso che sbuca dalle mani di qualcuno, nel momento in cui quel camminare ritmato e deciso si ammorbidisce per mutarsi in una lenta processione. Poi qualcuno si stacca, qualcuno cade, qualcuno danza: emergono i caratteri delle sorelle, il loro sguardo, i gesti. Ed è allora che sembra iniziare, senza mai iniziare davvero, il rito funebre. È un rito di rammemorazione e compianto. È uno spaccato di ricordi, di racconti, di vita, di “disperata vitalità”: richiamata, rivendicata, evocata da risa, battute, fischi, gesti. La vita che non si ferma, la vita che va avanti nonostante la morte. Perché i morti sono in mezzo agli altri, vengono fuori, uno dopo l’altro: il padre, con la sua storia di fatica e vessazioni; la madre bellissima e serena; il figlio di una delle sorelle, appassionato di calcio ma con il cuore debole. Sono morti, e sono tra noi, sembra dire Emma Dante. La memoria non passa, il passato non passa. Ed è il microcosmo di sempre, quello delle vite minime, quello dei semplici, dei reietti: la scoperta del mare o il collegio, il lavoro, i vestiti, le imitazioni, gli scherzi, gli aneddoti. Quei “codici del cuore” che ci sono in ogni famiglia, quelle cazzatine condivise che fanno tenerezza a chi le sa; quei gesti, quelle parole che poi, quando qualcuno non ci sarà più, tornano con un mare di lacrime.
La scena vuota, le luci taglienti: non ci sono più gli orpelli folklorici, le lucine di Carnezzeria, né gli object trouvé usati in altri lavori. Solo – in proscenio – gli scudi di latta dei Pupi, che saranno lapidi e tombe. Poi ci sono gli interpreti: ti affezioni alle loro storie, a quelle bellezze imperfette, a quella umanità. Alessandra Fazzino (straordinaria) e, bravissime nella loro intensità e presenza, Serena Barone, Elena Borgogni, Italia Carroccio, Marcella Colaianni, Daniela Macaluso, Leonarda Saffi. Con le sorelle ecco poi Sandro Maria Campagna, un padre fatto di dignità calpestate e affetto; Stephanie Taillander, la bellissima madre; e Davide Celona, Maradona entusiasta dal cuore fragile.
È difficile recensire uno spettacolo simile, fatto di niente e di tutto, senza ricordare il silenzio assoluto del pubblico e i singhiozzi che si sentivano di qua e di là (ci sono anche quelli che storcono il naso, che dicono che è folklore, e probabilmente l’avrebbero detto anche di Kantor: ma è un problema loro, non saprei che altro rispondere).
Emma sa l’emozione degli spettatori: sa come suscitarla, sa come toccare corde del sentimento collettivo. Sa evocare l’immaginario attraverso archetipi, attraverso questi cerimoniali funebri, usando la musica o le smorfie di dolore o il gesto simbolico degli interpreti. Sa cosa fa male: lo sa perché quel male è il suo e non ne fa mistero. Lo ritualizza, lo espone, lo dichiara. Ma qui – rispetto a Vita Mia, che Renato Palazzi aveva definito “scheggia di emozione e di dolore allo stato puro” – mi sembra di poter dire che prevalga, sottile, un senso di compassione. Se là era strazio e dolore, in Le sorelle Macaluso, che forse chiude quella che è diventata una tetralogia della famiglia, vi è uno sguardo senza quella rabbia ostinata, ma pieno d’affetto, di nostalgia, di dolente ricordo, di empatia. Io non c’ero con La Classe morta, ma ero al Palladium di Roma, di fronte a uno spettacolo della stagione di Fondazione Romaeuropa.
Ero lì, con tanti altri, in un teatro straesaurito, a capire cosa è la morte.