(Es)cogito, ergo sumNon c’è talento senza frusta: la prematura morte di Philip Seymour Hoffman

Non c’è talento senza frusta. E’ ciò che viene in mente alla notizia della morte di Philip Seymour Hoffman, trovato senza vita nel suo appartamento di New York, a soli 46 anni, probabilmente a cau...

Non c’è talento senza frusta.

E’ ciò che viene in mente alla notizia della morte di Philip Seymour Hoffman, trovato senza vita nel suo appartamento di New York, a soli 46 anni, probabilmente a causa di un’overdose di eroina.

Ogni morte porta con sé qualcosa di osceno, di pruriginoso, che viene amplificato quando a morire è qualcuno che, per chi osserva la sua vita dall’esterno, dalla vita non avrebbe potuto desiderare di più. 

Si accendono così gli isterici falò dell’effimero che investono coloro che escono di scena in un modo così brutale e inaspettato. Ognuno si sente legittimato a pontificare sulle ragioni che abbiano portato uno dei migliori attori- forse il migliore- della sua generazione a fare uso di eroina. Eppure cosa gli mancava? Un Oscar vinto nel 2006 per la sublime interpretazione dello scrittore Truman Capote, una compagna che lo amava, tre figli, benessere, ricchezza, fama.   

Eppure tutto ciò non è bastato a spegnere gli abissi di tristezza e dolore che Hoffman si portava dentro. Non è nostro compito giudicare, soprattutto adesso, chi forse nascondeva dietro i bagliori dei flash un disperato sforzo di sopravvivenza. D’altronde, nulla sappiamo del mondo interiore di chi aveva realizzato il sogno che, probabilmente, è quello di ciascuno di noi, ossia vivere cento vite.

Philip Seymour Hoffman è stato tutto ciò che noi non potremo mai essere, ha incarnato i vizi e le virtù che nessun essere umano potrà mai compendiare. Ha impersonato il buono e il cattivo, il fragile e il forte, il mentore e il complessato, l’onesto e il manipolatore di coscienze; e ogni volta aveva il dono di farsi amare, così com’era. Ogni suo personaggio era parte di una cosmogonia politeista che, inevitabilmente, ti affascinava facendo sì che, anche dopo la fine del film, noi spettatori continuassimo a interrogarci su cosa ne fosse stato di padre Brendan, l’ambiguo sacerdote de “il dubbio”, di Earl, l’impacciato infermiere di “Magnolia”, di Lancaster Dodd, l’inquietante manipolatore di “The Master”. 

Per tutte queste ragioni, il dolore per la sua morte è autentico e porta con sé l’amarezza di non poterlo più ammirare in quelle vite che non potrà più impersonare.

A consolarci, resta l’immortalità del suo versatile talento e la speranza che il suo animo tormentato abbia finalmente trovato pace.

Che la terra ti sia lieve, Philip.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter