L’onesto JagoParlano ancora le Operette di Leopardi

"Operette Morali" di Giacomo Leopardi, regia Mario Martone, foto Simona Cagnasso   Da circa venti anni, il teatro di Mario Martone mancava dai palcoscenici veneziani. Ora il pubblico dello S...

“Operette Morali” di Giacomo Leopardi, regia Mario Martone, foto Simona Cagnasso

Da circa venti anni, il teatro di Mario Martone mancava dai palcoscenici veneziani. Ora il pubblico dello Stabile del Veneto ha avuto la possibilità di scoprire – o ritrovare – uno dei lavori più intensi fatti dal regista napoletano. Stiamo parlando delle Operette Morali che proprio sulle assi del veneziano teatro Goldoni ha ripreso il suo cammino, giunto com’è alla terza stagione, e ha trovato una nuova edizione “scenica”, frontale – diversa da quella a pianta centrale voluta inizialmente da Martone.

Operette Morali, prodotto dallo Stabile di Torino di cui Martone è direttore, è stato già ampiamente recensito e pluripremiato: ora, anche in questa nuova veste, conferma le sue qualità. È un lavoro che ha il merito indubbio di far risuonare, nuove e scintillanti come mai, le parole di Giacomo Leopardi. I testi delle Operette, infatti, nel mirabile lavoro drammaturgico fatto dalla Dramaturg Ippolita Di Majo, svelano intense vertigini tutte teatrali: si avvertono echi di tragedie greche, suggestioni shakespeariane, rimandi al dramma borghese o alla farsa popolare.

Leopardi, insomma, parla – oggi più che mai, in questo Paese sfranto e irrequieto, irrisolto e affannato, in perenne crisi e in costante frenesia – con quel suo stile alto eppure comprensibile, lirico ma vivo, elegantissimo nell’eloquio ma diretto e incisivo.

In fondo, va detto, la “regia” è anche questo: la capacità di cogliere il tempo di un testo, di un’opera; di capire quando e quanto un “classico” possa parlare all’oggi con rinnovata freschezza. Di intuire, insomma, come certe parole – quelle parole di due secoli fa – siano necessarie per svelare, finalmente, ciò che siamo, o ciò che avremmo potuto essere come individui, come paese, come società. Sappiamo quanto Leopardi cercasse, nelle Operette, un tentativo, uno slancio verso la “teatralizzazione” possibile di un linguaggio altro, capace di fondare anche una “lingua nazionale”. Paradossalmente, stessa tensione irrisolta avrebbe avuto, più di un secolo dopo, Pier Paolo Pasolini riflettendo sulla lingua “civile” dell’Orestea tradotta per Gassman, o spiegata nel “Manifesto per un nuovo teatro”. Ecco, dunque, la denuncia – vuoi per ironia, o per proclama – che emerge da queste Operette in scena: tutto quel che si è perso, lucidamente denunciato da Leopardi, in una nazione che già allora declinava verso il pressapochismo, l’opportunismo, il cinismo. Risuona di passato, quel parlar forbito, ma suscita nostalgia amara se rapportato ai tristi e volgari sproloqui televisivi; al farfugliare sconnesso e adolescenziale di chi non sa più verbalizzare; o al gridare inascoltato di tanti, troppi, coetanei d’oggi di quel Leopardi giovane, esclusi più che mai da tutto.

Giacomo Leopardi è ancora capace di dare una lezione poetico-politica, di indignazione e impegno, di rivendicazione individuale e collettiva, di lotta addirittura per stare al mondo con consapevolezza altra e alta. E se pure risuonano più datate le invettive contro la natura maligna – ormai è l’uomo maligno alla natura – resta immutata la forza di un pensiero critico che si fa parola e dunque lotta.

Anche il cast è cambiato, in questa ripresa dello spettacolo, e al debutto si avverte, qua e là, il bisogno di un rodaggio ulteriore. Se certi ruoli sono da far lievitare (appare affannato il bravo Paolo Graziosi, ancora non al suo meglio; come pure Iaia Forte, new entry nel cast, deve maturare una sua dimensione) altri volano già per intensità e consapevolezza. Ad esempio, nella mirabile e grottesca fine del primo atto, dove risuona il “Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie”, capace – nello spazio scenico lineare e bellissimo di Mimmo Palladino, ottimamente illuminato da Pasquale Mari – di evocare i campi di concentramento, affidato a un incisivo Totò Onnis e a un tagliente Paolo Musìo.

Ma il momento più alto, assoluto, del lavoro è nel “Dialogo di Plotino e Porfirio” affidato a due giganti come Barbara Valmorin e Renato Carpentieri. Consapevolezza, amarezza, disincanto, umanità, fraternità, solidarietà, illusione e disillusione dello stare al mondo: la vita, qui, è disincanto e speranza, disperazione e amore. I due attori affrontano il difficile passaggio, dialogo filosofico e teorico, con una semplicità disarmante e con una adesione totale. Allora la parola vibrante di Leopardi riprende vita, dà coraggio, fa riflettere.

Ma, nell’articolata proposta dei quattordici dialoghi, sono sicuramente da menzionare Roberto de Francesco – che è, ad esempio, un Tristano intellettuale e feroce – a Giovani Ludeno, che sa caratterizzare sapientemente di gusto “popolare”, addirittura dialettale, i suoi personaggi.

Poi, alla fine dello spettacolo, mi sono trovato a ripensare a quanto il teatro di Mario Martone abbia comunque puntellato la mia esperienza di spettatore: il bellissimo Persiani a Siracusa, il viaggio attraverso Edipo a Roma, e quei video di vecchi spettacoli – tra i primi, come Rasoi – che ancora oggi uso per spiegare quanto, a Napoli, decenni fa, si sia scritta una pagina importante nella storia recente del teatro italiano. 

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