Come finisce l’amore? Nel non detto, nel silenzio, nel confronto aspro tra chi ama ancora e chi non ama più. O nello scontro violento, nell’urlo esasperato, nelle accuse e nelle vendette. Parole gridate per ferire, silenzi usati per negare, rabbie trattenute, gesti impulsivi. Lacrime, a volte, e carezze tardive, fuori tempo. Le coppie scoppiano, si sa. In tempo di crisi, poi, anche l’amore è un privilegio: non ci possiamo permettere nemmeno più di amare. “Due cuori e una capanna” non esiste più: troppa prossimità limita la libertà. E “due cuori e due capanne” non sono gestibili, in termini economici, ché poi, comunque, la distanza a lungo andare logora.
Eppure, affannosamente, sempre di nuovo, continuiamo a parlare d’amore; rincorriamo quel sogno inutile, quell’illusione di felicità, di serenità: di coppia appunto, come il naufrago cerca l’isola felice. Ci aggrappiamo affannati all’idea, alla possibilità e cerchiamo abbracci che possano scaldare, far sorridere, consolare.
Pensavo a tutto questo, l’altra sera, di fronte alla gelida, scabrosa, efficacissima messa in scena di Quartett, capolavoro scritto da Heiner Müller nei primi anni Ottanta. Müller, come è noto a molti, era davvero un “poeta delle ceneri”. Parlava dai frammenti, dalle rovine della sua Germania ancora e già nuovamente distrutta: dai cumuli di macerie della Seconda Guerra Mondiale e dal crollo che di lì a poco avrebbe travolto il comunismo.
Erede di Brecht, certo, ma con un pessimismo in più, con una lettura amaramente negativa del postmodernismo, della fine della Società dello spettacolo, della squassata e spaesata identità dell’uomo. “Io ero Amleto” è l’incipit tagliente di un altro suo capolavoro, Hamletmachine, di poco precedente a Quartett. In quell’ “io ero” è la condizione poetica e dolente in cui si muovono tutti o quasi i suoi personaggi.
Per Quartett, l’autore prende spunto da quel capolavoro di cinismo applicato al sentimento che è Le relazioni pericolose, scritto da Choderlos de Laclos nel 1782, tristemente noto nella banalizzata e stucchevole versione cinematografica di Stephen Frears. Müller esaspera il violento scontro verbale tra i due protagonisti, la marchesa de Merteuil e il visconte Valmont, ne fa due campioni della vivisezione, dell’analitica scomposizione autoptica del sentimento, due incarogniti combattenti votati alla distruzione delle passioni e delle pulsioni. Eppure, nonostante il furore, l’ironia, la cattiveria, quel testo resta ancora – almeno per me – come l’ultimo disperato tentativo di evocare, attraverso il cinismo, la nostalgia d’amore. Quell’amore che nonostante tutto pensiamo possa ancora esistere, da qualche parte. Quello che avrebbe potuto essere, o che forse è ancora possibile: per questo, nella spossante ricerca, nella continua disillusione, lo si rimpiange. Lo si ricorda, lo si evoca come una morte scomoda, fastidiosa, imbarazzante. Valmont e Merteuil, dunque, con i loro giochi di ruolo (daranno voce ai quattro personaggi della vicenda), con la loro arguzia, parlano di fronte al cadavere, ancora caldo, di ogni sentimento.
Ricordo alcune edizioni bellissime, di questo testo. Intanto quello “originale”, dello stesso Müller, interpretato magistralmente da Martin Wuttke e una incredibile, indimenticabile Marianne Hoppe. E ricordo anche, con altrettanto piacere, la bella versione catalana con la superba Anna Lizaran e Lluis Homar.
L’altra sera, al Piccolo Eliseo, in scena erano Laura Marinoni e Valter Malosti (anche regista, nella produzione dello Stabile di Torino). Ed è stata, anche questa, una ottima edizione del testo muelleriano: nitida, netta, tagliente. Ambientato in una gelida sala d’ospedale, con letto di ferro e flebo, mentre dietro le grigie vetrate sta crollando, esplodendo il mondo, Quartett vede i due protagonisti indossare parrucche settecentesche e abiti d’epoca – i costumi sono del bravo Falaschi – , ma parlare un crudo, amaro linguaggio d’oggi creato sapientemente dalla Dramaturg Agnese Grieco.
Ancora una volta – forse l’ennesima, forse solo come ricordo o sogno di lei – i due protagonisti interpretano le loro parti, “recitano” di nuovo le schermaglie verbali, si sfidano e si seducono. Non c’è passione ormai, se non in quella sottile nostalgia, devastata da un mare di rancoroso dolore. Sono due pugili sfiniti e tumefatti, che si sorreggono sul ring per non crollare. Bravissimi in scena, Marinoni e Malosti lasciano spazio anche al coté grottesco, spinto, addirittura perverso: lui sfodererà un pene d’oro, cui lei, macchiettistica come in una comica in biancoenero da cinema muto d’altri tempi, si presterà volentieri. Laura Marinoni tiene saldamente il controllo di una recitazione aspra eppure ampia nelle sfumature: fa trapelare l’umanità, la fragilità, dietro la maschera della ferocia. Valter Malosti, mentre spinge verso l’ammiccamento, la sottolineatura barocca, e a tratti il comico, colora di amarezza e di consapevolezza il suo non-eroe.
Il senso di morte, che incombe in quella squallida sala d’ospedale, è dunque il rantolo affannato di un sentimento che non c’è più, che crolla esausto di fronte all’evidenza dell’impossibilità. Resta la ferocia, resta lo scheletro che si svela, oltre la bellezza svanita di un sogno. Resta il rimpianto, la nostalgia di fronte all’ennesimo fallimento.