Il consumo collaborativo ci rivoluzionerà la vita. Lo sta già facendo, imponendo all’attenzione globale, nell’era della crisi, l’idea che condividere qualcosa sia più bello che possederla: ciò che è “mio” può diventare “tuo”, così da soddisfare senza tanti sprechi i bisogni e i desideri di tutti, nei campi più diversi. Secondo l’esperta americana April Rinne di Collaborative Labs sono tre le categorie cui si applica la sharing economy: lo spazio (case, alberghi, giardini, uffici); gli oggetti (automobili, bici, attrezzi); i talenti e le capacità.
C’è da scommettere che da qui in avanti assisteremo a piccoli e grandi sconvolgimenti in ognuno di questi ambiti. Ci stiamo accorgendo che certi vecchi sistemi non funzionano più, che le aziende e gli uffici intorno a cui nonni e genitori hanno costruito le loro carriere non sono più in grado di rispondere ai nostri sogni e desideri e insomma che il “business as usual” ha smesso di rappresentare un’opzione valida per le nostre vite. Invece di aspettare che siano politici e istituzioni ad aggiustare per noi il sistema, ne stiamo creando uno alternativo proprio sotto i loro nasi. Un sistema leggero, dove l’esperienza conta di più del possesso materiale e dove la tecnologia gioca un ruolo da protagonista.
La filosofia del mettere in comune le risorse sottoutilizzate, cercando di trarne un vantaggio per tutti (a cominciare dalla costruzione di un futuro più sostenibile) e un profitto per se stessi viene dall’estero, ma sta decollando anche in Italia di pari passo con la diffusione di smartphone e application. Le start up internazionali approdate nel nostro Paese crescono a passo svelto: nell’ultimo anno Airbnb ha messo a segno un +354% con 50mila alloggi disponibili e 12mila ospiti al giorno, mentre BlaBlaCar viaggia con una piattaforma di circa 500mila persone in forte crescita, con gli iscritti quintuplicati in sei mesi. Ma dicono la loro anche alcuni player italiani: Gnammo (la community in cui tu fai il cuoco e chi si prenota viene a mangiare da te, pagando) conta 12mila iscritti e oltre 4.500 gnammers. Poi c’è Fubles: nata dall’idea di creare squadre di calcetto con persone che non si conoscono affatto, ha attivato una partnership con le società che noleggiano i campi, siglato un’intesa con adidas e trovato un finanziatore in Renzo Rosso di Diesel. Oggi è arrivata a 337mila giocatori e 77mila partite giocate. Le piattaforme collaborative on line nella Penisola sono circa 250. È vero, c’è chi è più fortunato, come i casi di cui sopra, e chi sta facendo fatica, ma la domanda esiste, e cresce.
Il fronte più “caldo” per la sharing economy? È senz’altro quello della mobilità. “Non conosco un Paese che potrebbe beneficiarne di più”, ha assicurato la Rinne. Quello che sta succedendo a Milano le dà ragione, con buona pace di chi pensa che gli italiani siano irrimediabilmente pigri, diffidenti e resistenti alla novità. È iniziata una nuova era?