Credersi inattaccabili non è soltanto la premessa più ostinata e ingannevole, ma un’aperta e paradossale dichiarazione di caducità. La sua consapevolezza ci eviterebbe molti fanatismi, ci condurrebbe a una sincerità emotiva ed etica maggiori. La narrazione teatrale si infittisce di strumenti, convenzioni, monologhi e a parte che venerano l’eterna contraddizione tra la carne debole e il pensiero che eleva, tra la misura delle parole e il calibro della follia che le disperde o le salva in poesia.
Dalla scrittura nevrotica e furente di Heiner Müller sgorgano derive del dolore piegato a consumazione caotica del sé e dell’altro, quel compendio insidioso di una vita spesa ad amare e stordirsi con bugie nascoste sotto le promesse, finché il virus del patire non è interrotto da ruoli che si invertono, amanti che snudano i propri eccessi e giochi di potere rinfacciati come melodie e strategie di depravazione. Quartett, una partitura sinistra e dolente si piega facilmente al grottesco più dark, alla frenesia verbale e fintamente illogica che vede l’originale de Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos avvitarsi su un duetto che potrebbe tranquillamente essere un unicum di Marquise protagonista a guidare il gioco e lo scambio di parti e amanti.
Nella versione di Valter Malosti, per adattamento drammaturgico di Agnese Grieco, il membro maschile dorato e plastificato dai pantaloni di Valmont innesca e prosegue una sorta di game musicale e parodistico come esibizione e cecità di fronte a quella servitù amorosa che un’inarrivabile Laura Marinoni offende o finge di assecondare. Così il nervo dei monologhi fluviali di Müller si moltiplica o si frena nell’irriverenza e maniera più dissacrante, fino al culmine già introdotto da una scena d’ospedale in cui Marquise dipende da una flebo come dal proprio cancro che sfibra e condanna, da una passione che fa della fedeltà la peggiore depravazione e del suicidio l’acme della masturbazione.
Ma non si tratta di involuzioni, se non nel gusto feroce dei neon e di una recitazione in perdita di Valmont, quanto più si sente l’esigenza di ritrovare colei che – lo si ribadisce, con un atto di coraggio registico e di rinuncia a stare in scena – avrebbe potuto meglio raccordare da sola tutte le voci, le ossessioni, i deliri, le rabbie ricattatorie di una drammaturgia brutale e altissima. Laddove non si insegna, ma si travolge con la liberazione finale dalla parrucca e il volto sollevato a seguire la nuvola di fumo che la malata terminale ha soffiato dopo essere stata magnificamente una, nessuna, centomila.
La trasformazione è osservata da dietro un tulle, come un rito artefatto o una gabbia, senso comune anche alla scrittura più calcolata e molesta nei sottintesi de La pace perpetua di Juan Mayorga. Una scena disegnata da una geometria a pannelli in cui tre razze di cani e mezzi uomini si sfidano a guadagnarsi il collare bianco, supremo riconoscimento di chi dall’alto li sottopone a prove di forza e ingegno. Se olfatto e forza regolano le risposte di due di loro, solo il giudizio appartiene alla bestia più anziana che non ha saputo difendere la propria padroncina da un incendio. La camera della gara è una pellicola asettica che separa dal mondo in cui, per certo, due dei tre hanno ucciso e coltivano memorie di difesa a ogni costo senza limite morale.
L’eco dell’opera di Kant nel titolo si riversa in discorsi che distinguono la purezza della razza dall’incrocio e non possono non far pensare alle dittature mondiali, ma la timida regia di Jacopo Gassmann, pur delimitando i temi e le rivalse, non riesce del tutto a far esplodere una necessità forse perché sospesa dalla tirata finale del padrone assoluto che si erge a difendere l’innocenza dal crimine. Lo stesso le capacità attorali di Pippo Cangiano, Enzo Curcurù, Giampiero Judica, Davide Lorino e Danilo Nigrelli, distinte, preziose e indipendenti come per rispetto alle caratterizzazioni più competitive, finiscono per dividersi troppo e non amalgamarsi in una prova davvero impietosa, mordace, ritmata che fa dell’uno la versione più triviale di uno Jago addestrato e degli altri le maschere del saggio o dell’ingenuo pieno di muscoli, ma privo d’astuzie.
La pratica scenica del mettersi l’uno contro l’altro a replica della sfida umana senza fine è sì un’ottima cornice in cui però la drammaturgia di Mayorga ama ripiegarsi e ammaestrare, in cerca perciò di una regia che non le offra il fianco, ma la spolpi delle prolissità offrendo a chi la agisce l’occasione di restituire un contagio potente tra l’umano e il troppo umano. A quel punto, le parole davvero sembrerebbero imbrogliare e attorcigliare le viscere, davvero si sentirebbe mancare tutto dentro i confini della gabbia e scatterebbe nello spettatore il bisogno di rompere il muro trasparente e liberare i cani-uomini al destino delle loro istruzioni.
Piccolo Teatro Grassi – Fino al 16 febbraio 2014
Quartett
di Heiner Müller
da Le relazioni pericolose di Laclos
nuova versione italiana Agnese Grieco e Valter Malosti
con Laura Marinoni e Valter Malosti
regia Valter Malosti
dramaturg Agnese Grieco
scene Nicolas Bovey
suono e live electronics G.u.p. Alcaro
luci Francesco Dell’Elba
costumi Gianluca Falaschi
assistente alla regiaElena Serra
produzione Fondazione del Teatro Stabile di Torino
Teatro Elfo Puccini – Fino al 16 febbraio 2014
La pace perpetua
di Juan Mayorga
traduzione Antonella Caron
regia di Jacopo Gassmann
movimenti Marco Angelilli
scene Alessandro Chiti
costumi Sandra Cardini
con Pippo Cangiano, Enzo Curcurù, Giampiero Judica, Davide Lorino e Danilo Nigrelli
light-designer Gianni Staropoli
suono David Barittoni
produzione Società per Attori