“La Piccola Principessa” di Alfonso Cuaròn

Data la recente scomparsa di Shirley Temple, che a sua volta interpretò la piccola Sara Crewe nella versione di Walter Lang del 1939 che porta il medesimo titolo del libro, viene quasi naturale and...

Data la recente scomparsa di Shirley Temple, che a sua volta interpretò la piccola Sara Crewe nella versione di Walter Lang del 1939 che porta il medesimo titolo del libro, viene quasi naturale andare a ripescare – visto il clamore sorto intorno al suo recente Gravity, – la versione della stessa storia che Alfonso Cuaròn (Y tu Mama tambièn, Harry Potter e il Prigioniero di Azkaban, I Figli degli Uomini, Gravity) diresse nel 1995 per la Warner Bros.


La Piccola Principessa
, che il battage pubblicitario di allora mise subito in relazione con il precedente nel quale Riccioli d’Oro era padrona assoluta della scena, è un film che ha fallito la sua missione al botteghino epperò ha senza dubbio impressionato favorevolmente la critica e, rivisto alla luce delle successive prove di Cuaròn, contribuisce a chiarire la poetica di questo regista visionario e particolarmente sensibile ai temi del magico.

La trama, per sommi capi, è sempre la stessa, passando dal libro di Frances Hodgeson Burnett (autrice anche de Il giardino segreto e Il piccolo Lord) sino ad arrivare alle due versioni cinematografiche. La piccola Sara Crewe, figlia di un ricco gentiluomo inglese, cresce nell’agio seppur non viziata: certo non insopportabile come la Mary Lennox del Giardino Segreto né melensa come Cedric Erroll nel Piccolo Lord. E’ una bambina che ha tutto, sa che può avere tutto, ma che sa anche capire la caducità delle cose, con un padre che le rammenta con sensibilità l’esistenza di ‘poveri sfortunati’ che non condividono il benessere economico delle classi alte.

L’India, come già per Mary Lennox (sono piccoli eroi che vengono da lontano, quelli della Burnett), costituisce l’idillio fatato in cui la giovane Sara cresce: non l’India delle grandi e povere città ma l’India della ‘capitale estiva’ dei viceré britannici, quella Simla che ancora oggi sembra in tutto una città inglese e su cui ha scritto con affetto e partecipazione Pamela Mountbatten, ricordando un tempo che non è più.

Inviata presso l’Istituto Femminile di Miss Minchin, un’arcigna signora che tratta le sue convittrici in ragione del loro potere economico, Sara ne diviene ben presto la piccola stella, ammirata da (quasi) tutte le compagne ed odiata dalla Minchin che si sente minacciata dalla piccola – parla persino il francese meglio di lei! – ma che non la può toccare essendo la figlia di un uomo così facoltoso.

E tuttavia, purtroppo, come spesso accade nei romanzi della Burnett, i bambini rimangono soli. Un giorno arriva al Collegio la notizia che il padre di Sara è morto: la bimba resta senza un soldo per un complesso problema legale/patrimoniale e Miss Minchin, finalmente tornata in posizione di vantaggio, può cominciare ad infierire sulla sua piccola vittima.

La sposta dalla camera più bella della casa su su nelle soffitte, a fianco della servetta Becky. La veste di stracci, lei che possedeva i più bei vestiti della scuola. La mette a lavorare nelle cucine con le sue manine che non avevano mai dovuto fare nulla. In pratica, diremmo oggi, la fa oggetto di un sistematico abuso cui i minori dell’epoca vittoriana, tuttavia, erano sin troppo abituati.

Il film di Cuaròn si distanzia, anche come trama e pur lievemente, sia dal libro che dalla versione di Lang. La vicenda infatti non si svolge nella Londra vittoriana ma nella New York della Prima Guerra Mondiale. Il padre di Sara è disperso in guerra e non in India e il lieto fine, con Mr. Crewe che ricompare dopo aver perduto la memoria e salva la piccola ex orfana, modifica un po’ il libro che invece si chiude con un happy ending a metà. La stessa Becky, piccola camerierina cockney nella Londra della Regina Vittoria, è qui una sguattera di colore discriminata soprattutto a livello razziale.

Il tocco di Cuaròn, ad ogni buon conto, si sente e si apprezza. Se da un lato Shirley Temple, pur dolcissima, aveva dato un’interpretazione un po’ troppo forte e presenzialista, la giovane Liesl Matthews impersona Sara alla perfezione, dandole i tratti di una bambina assolutamente normale e fiera di sé (conterà forse il fatto che la Matthews, il cui vero cognome è Pritzker, appartiene ad una delle famiglie più ricche d’America?) che però non si atteggia mai come una starlette.

I racconti che Sara fa alle compagne di scuola (verrebbe da dire ‘di prigionia’ in realtà) sono attinti dall’antico poema indiano Ramayana e sono resi da Cuaròn con gli effetti di una realtà fortemente cromatica e bidimensionale che mima alla perfezione l’immaginifico infantile e fa scopertamente l’occhiolino ai dipinti hindu classici.

La storia è riletta con assoluta comprensione di due grandi temi estremamente cari alla Burnett: la decadenza, intesa non solo in senso economico ma anche e soprattutto in senso sociale, con Sara che solo grazie alla sua forza di volontà e alla sua fede nella speranza riesce a sopportare le continue umiliazioni cui è sottoposta; la solitudine dei bambini, sia che essi siano calati all’interno di un contesto scolastico ostile, sia che invece si trovino soli in un enorme castello come Mary Lennox o Cedric Erroll.

Inoltre va aggiunto che il film riporta delle raffinatezze che lo apparentano ai vecchi libri per bambini degli anni ’20: la scuola di Miss Minchin, per dirne una, è colorata fondamentalmente di verde, dalle divise delle bambine sino alle decorazioni sui soffitti; i colori del fuoco vengono associati invece di preferenza all’origine ‘esotica’ di Sara e sono quindi un segnale che in quel momento si sta parlando dell’India e, per traslato, del magico. Non ultima, la musica è perfettamente azzeccata: suoni orientaleggianti condiscono tutta la pellicola e ci aiutano a suddividere le sequenze anche a livello temporale.

Indimenticabile poi la figura di Ram Dass, il servo indiano del ricco signor Carrisford (in questa versione si chiama Mr. Randolph), che abita nella casa di fronte al Collegio e di notte, osservando le pene della ragazzina, entra di nascosto nella sua camera apparecchiandole la tavola per la colazione, inchinandosi a lei – quasi il padre non fosse mai morto – ricordandole che “tutte le donne sono delle principesse, anche se sono vestite di stracci.”

Un buon lavoro di Cuaròn che già a metà anni novanta poteva ben lasciar presagire la carica di originalità e immaginazione che questo regista avrebbe portato al cinema mondiale.

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