Parlare con i limoniUcciso dalla camorra e poi dimenticato: la storia di don Cesare Boschin

Sabato prossimo Latina ospiterà la 19° edizione della Giornata Nazionale della Memoria e dell’Impegno, la manifestazione che l’associazione Libera organizza ogni anno per ribadire il suo impegno co...

Sabato prossimo Latina ospiterà la 19° edizione della Giornata Nazionale della Memoria e dell’Impegno, la manifestazione che l’associazione Libera organizza ogni anno per ribadire il suo impegno contro la mafia.   

Fra i tanti motivi che hanno spinto l’associazione di don Luigi Ciotti a scegliere Latina, oltre alle sempre più crescenti infiltrazioni della criminalità organizzata nel Lazio anche la volontà di ricordare e onorare la figura di don Cesare Boschin.

Gli eroi sono tutti giovani e belli. Forse in pochi conoscono Don Cesare perché aveva ben ottantuno anni quando fu assassinato nella sua canonica a Borgo Montello, frazione rurale di Latina. La mattina del 30 marzo 1995 lo trovarono legato al letto e incaprettato, il corpo ricoperto di lividi, la mascella fratturata. Le botte furono così tante che gli fecero ingoiare la dentiera, fino a soffocarlo. “Prete ucciso nel letto” titolò l’indomani il Corriere della Sera.

La storia fece clamore, poi rapidamente si spense. La memoria di Don Cesare fu offesa, violentata e poi oscurata. Prima dissero: “E’ una rapina finita male” ma i soldi delle offerte erano intatti. Poi insinuarono la frequentazione di prostituti stranieri intrattenuti per soldi. Un’autentica calunnia senza prove. Le indagini si arenarono in fretta e non si arrivò neanche al processo.

Qualche anno fa ho partecipato ad un anniversario dell’omicidio. Un piccolo gruppo di persone si era radunato davanti alla targa di bronzo in memoriam che hanno appeso nel muro della sua parrocchia, una chiesetta dedicata alla Santissima Annunziata. Vi hanno inciso una frase del Vangelo: “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno”.

Era un sera silenziosa, illuminata da una fioca lampadina. Il buio ingoiava le case e la campagna. Una donna posò un mazzo di rose a terra, proprio sotto la citazione evangelica. C’era un clima di mestizia e rabbia perché vent’anni dopo quel delitto, nulla sembrava in grado di scuotere l’indifferenza e l’oblio, nulla dava speranza a chi attende giustizia. Ma nel giro di pochi anni, contro ogni previsione, la sua storia ha iniziato a farsi strada, a scuotere le coscienze, ad interrogare le persone. La giornalista Monica Zornetta sta scrivendo un libro sulla sua storia.

Don Cesare era nato a Trebaseleghe –in Veneto– l’8 ottobre 1914. Nel 1950 fu inviato in Agro Pontino per assistere i suoi correggionali emigrati in massa a Montello. È un parroco di campagna come tanti altri, che conosce la sua gente e la sua gente si fida di lui. Fino a confidargli i segreti che inquietano il borgo da quando è stata aperta qui un’importante discarica. Una discarica che la notte si anima, grossi e rombanti tir che scaricano cose strane, odori nauseanti e le tasche dei disoccupati locali sempre più gonfie.

Il sospetto è che nella discarica stia finendo qualcosa di pericoloso ovvero quei rifiuti tossici che nei primi anni ’90 circolano su e giù per l’Italia. “Don Cesare” –ricorda Claudio Gatto suo amico e collaboratore– “non era un Don Puglisi e nemmeno un Don Diana, semplicemente un vecchio parroco veneto che considerava la parrocchia un campo che Dio gli aveva affidato e che doveva coltivare e difendere ad ogni costo.”

Nella difesa della sua terra, don Cesare inizia –malgrado l’età– ad attivarsi. Collabora con un comitato di residenti, scrive ai politici, prende il telefono e contatta le istituzioni. E qualcosa inizia a muoversi e le prime indagini scoprono “un’anomala massa metallica” sotto la puzzolente collina della discarica.

Qualcuno non gradisce tanto attivismo. Don Cesare e il suo comitato ricevono minacce, pressioni, intimidazioni. Ma il vecchio parroco di campagna non si lascia intimorire e allora viene fermato con le botte e con la morte. Un’ipotesi mai suffragata ufficialmente ma supportata da tante continue conferme: l’ultima è arrivata dal pentito di camorra Carmine Schiavone che in una lunga intervista a Lazio Tv ha ribadito sia la presenza di rifiuti tossici interrati nella zona sia che quel prete è “stato ucciso perché aveva capito qualcosa”.

Diciannove anni dopo, nella sua città sfileranno migliaia di persone gridando la loro voglia di pulizia e legalità. Diciannove anni dopo si troveranno a dover sfidare gli stessi mostri che sfidava don Cesare. Intatti, intoccabili, potentissimi. Sfigurati solo dall’esempio luminoso di un testimone –seppur anziano e malandato– che non ha voluto inginocchiarsi a quelle logiche, a quelle regole, a quelle condizioni.

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