Gioia Lieve ha quasi 40 anni, è una giornalista freelance, si trascina nelle spire di un precariato infinito, le sue storie d’amore e di sesso vivono alti e bassi, pensa di aver trovato l’uomo della sua vita, Uto, ma alla fine la tradisce, la molla e se ne va. Il suo desiderio di avere un figlio si scontra con tutte queste cose insieme e con un utero difettoso: «La ricerca di un figlio è sempre una questione di tube, segnatevelo», esclama, ad un certo punto, la protagonista.
Non chiedermi come sei nata, romanzo d’esordio di Annarita Briganti (Cairo editore, pp. 204, € 13) mescola racconto e denuncia, intemerate contro l’Italia «che fa schifo» e spaccati vividi di una generazione, quella dei 30-40enni di oggi, inquieta. Il senso del romanzo sta tutto nel titolo, nella pretesa che avanza, nell’imperativo, assurdo, imposto al figlio cercato, di non chiedere, quando sarà, di conoscere le proprie origini, anche biologiche. Come se questo fosse davvero possibile! Come se la libertà dell’altro fosse controllabile, riducibile ai nostri desiderata, sacrificabile sull’altare del mio diritto. «L’altro che io amo e che mi affascina è atopos», scrive Roland Barthes, «Io non posso classificarlo, poiché egli è precisamente l’Unico».
Gioia, dopo un aborto doloroso, una serie di interventi andati a vuoto e varie delusioni amorose, sceglie la strada della fecondazione eterologa da single. Vola in Spagna, in fuga dall’Italia dove, si sfoga, «la scienza non è libera e caccia quelle come me».
Il dolore di Gioia è autentico, lo strazio che il suo corpo è costretto a subire dolorosissimo. E questo l’autrice lo descrive con crudo realismo. Ciò che forse manca in questo romanzo-manifesto è paradossalmente proprio il punto di vista del figlio cercato. Persona, non oggetto. «Vogliamo un figlio per salvare la nostra coppia, in un mondo che va veloce e ci confonde», dice Gioia. E Uto, quando la relazione finisce, si giustifica così: «Credevo che un figlio avrebbe salvato la nostra relazione. Ci tenevi troppo, eri ossessionata. Non sapevo come uscirne». Di nuovo Gioia: «Il fallimento della relazione con lui dimostra che l’Amore con la maiuscola non esiste e le coppie senza figli non reggono». E ancora: «Pretendere dalla scienza un figlio significa non avere paura di niente».
Pretendere, appunto. Un figlio non si pretende, non si può pretendere. Il dramma che l’autrice mette in scena è monco, incompiuto: c’è la coppia, i suoi tira e molla, le sue nevrosi, manca lo sguardo del figlio, le sue possibili domande, le sue angosce, a lui prima si chiede di rimettere in carreggiata una relazione tormentata e poi, se possibile, di non chiedere da chi, dove, quando, perché è stato generato.
Il desiderio di Gioia merita il massimo rispetto ma è bene che questo desiderio non si trasformi in un diritto. Avere un figlio non è un diritto, non può risolversi nella rivendicazione di un diritto. Ne va anzitutto dell’equilibrio stesso della coppia.
A quest’obiezione Gioia risponderebbe che si tratta di un principio assurdo percependo in essa un senso di imposizione, un’inaccettabile restrizione della libertà personale.
Se l’arrivo di un figlio si riduce alla pura dialettica del diritto si finisce nelle rivendicazioni rancorose e piene d’invidia: «Non è giusto, perché a loro sì e a noi no? Quale colpa abbiamo noi?». La colpa, evidentemente, non è di nessuno perché avere un figlio non è questione di diritti o di leggi.
È la nostra esperienza quotidiana a dimostrarcelo continuamente: l’amicizia di un amico fedele non è un diritto, innamorarsi non è un diritto, diventare un grande artista non è un diritto, ricevere un dono non è un diritto…
Quando il desiderio di maternità degenera nell’appagamento ossessivo di un bisogno narcisistico si finisce, inconsapevolmente, per distruggere e distruggersi: «Da chiunque sia generata», dice Gioia, «sarà mia, mi farà compagnia, mi somiglierà, avrà il mio bel viso e la mia gioia. Insieme ce la faremo».
Riconoscere e accogliere un limite al proprio desiderio non è facile ma, forse, è il primo passo, certamente doloroso, per vivere all’altezza della propria umanità il nostro desiderio.