Opportune et importune«Non abbiate paura!», il miracolo più difficile di papa Wojtyla

Ora che è arrivato il momento, atteso da molti, della canonizzazione, voluta da papa Francesco in tandem con Giovanni XXIII, si moltiplicano i ricordi personali e le testimonianze su Giovanni Paol...

Ora che è arrivato il momento, atteso da molti, della canonizzazione, voluta da papa Francesco in tandem con Giovanni XXIII, si moltiplicano i ricordi personali e le testimonianze su Giovanni Paolo II. Nel processo che lo ha portato a tempi di record agli onori degli altari sono stati due i miracoli “decisivi”: la guarigione di una suora francese affetta dal morbo di Parkinson e quella di Floribeth Mora Diaz, la 51enne del Costa Rica guarita inspiegabilmente da un aneurisma cerebrale. Nonostante la causa di canonizzazione sia già conclusa, non cessano le segnalazioni di miracoli ed eventi inspiegabili, guarigioni perlopiù, attribuite all’intercessione del Papa polacco.

Ma c’è un miracolo più grande e più profondo che sfugge alle procedure processuali, pur importanti, un miracolo che non si può contare e forse continuerà incessante nel segreto dei cuori. Ha a che fare con quel grido, quell’invito che Wojtyla lanciò agli albori del pontificato: «Non abbiate paura! Aprite, anzi spalancate, le porte a Cristo!». Una frase divenuta quasi proverbiale e che però rischia di essere banalizzata, ridotta ad aforisma leggero da incartare in un cioccolatino.

«Non abbiate paura!» è il grido coraggioso di un Pastore che sa che la vita concreta degli uomini, di ognuno di noi – e non importa se si sia credenti o meno – si svolge tutta sotto il dominio della paura, della vergogna. Della paura del rischio, della paura di amare e di essere amati o traditi, della paura di mettersi in relazione con gli altri, della paura di non trovare risposte davanti all’enigma del dolore, il groviglio degli affetti, il piacere, la tragedia della morte. Della paura di non essere all’altezza della vocazione a cui si è chiamati, della paura di non farcela a superare la notte buia dell’incomprensione e del fallimento, della paura a non riuscire ad accettare il dono dell’amore o di una bella amicizia.

È davvero possibile superare questa paura? Giovanni Paolo II non si limitò a parlare soltanto ma egli stesso si fece pellegrino per le strade del mondo, girandolo in lungo e in largo, per dare coraggio agli smarriti di cuore, consolare i poveri, portare il suo abbraccio paterno, dire a tutti con forza e dolcezza: «Forza, ci sono anch’io con te. Non sei solo!». Sempre mettendo in guardia che se anche nella nostra vita personale non riusciamo ad afferrare e credere compiutamente in un Dio fattosi uomo e morto per gli uomini, di certo non lo possiamo sostituire con surrogati da quattro soldi, come le ideologie politiche, la scienza o la tecnologia, l’idolatria del denaro.

Il proprio della santità di papa Wojtyla sta in questo. Tanti uomini e donne del nostro tempo, non solo cattolici, si sono sentiti singolarmente cercati, aiutati, amati da un pastore che aveva il gusto dell’umanità. Un’esperienza che, se ben riflettiamo, anche noi facciamo ogni giorno quando un amico, una persona cara, un samaritano sconosciuto o senza volto si fanno prossimi per aiutarci a superare la nostra paura, la nostra difficoltà, il nostro dolore. Non sono supereroi ma persone normali. È il professore in grado di farti appassionare per una poesia di Leopardi o un’equazione di matematica, l’amico che si fa trovare quando sei disperato, la persona a cui hai fatto del male e trova la forza di perdonarti, il compagno fedele di una vita. Sono i “giusti” di cui parla Jorge Luis Borges. Santi anche loro, anche se nascosti agli occhi del mondo.