Economic Reboot : Quo Vadimus?Supply chain locale? Si grazie!

E’ ormai da qualche tempo che la corsa a una migliore gestione della supply chain, pervade e inasprisce la competizione per riuscire a procurarsi il portfolio di fornitori più ampio, internazionale...

E’ ormai da qualche tempo che la corsa a una migliore gestione della supply chain, pervade e inasprisce la competizione per riuscire a procurarsi il portfolio di fornitori più ampio, internazionale ed economico possibile. Si parla di outsourcing, insourcing o piu’ semplicemente di sourcing. Questo è stato, e in parte è tuttora, il diretto risultato di un fenomeno di globalizzazione che ha rappresentato principalmente un’avventura di allargamento coloniale più che culturale.

Fin dai tempi dell’apertura al mondo orientale (sia rappresentato da un Oriente più vicino, come i Paesi dell’ex-Unione Sovietica, oppure più lontano, come la Cina, ormai diventata “succursale”delle più’ importanti aziende occidentali), il vero genoma della globalizzazione è stato principalmente il risparmio sui costi di produzione e di manodopera, anche se molti continuano a pensare che in realtà siamo diventati un vero villaggio globale.

Se pero’ potessimo adottare invece una visione dell’impresa a lungo termine, ci aiuterebbe a riflettere sul complesso e paradossale contesto attuale, discutendo del perché sia necessario ridimensionare la supply chain da una prospettiva “centrifuga” a una più “centripeta”, per utilizzare due termini della fisica che ci aiutano a capire la dinamica di ciò che dovrebbe accadere. E’ importante portare avanti una riflessione sia sulla direzione degli sforzi che un’azienda deve intraprendere, sia sulla questione della sostenibilità, diventata ormai una vera emergenza (oltre che un perfetto cliché, se non addirittura un alibi) responsabile di aver destabilizzato i principi economici e commerciali su cui le aziende hanno basato la loro crescita dall’inizio degli anni 80 ad oggi.

Ma perché la sostenibilità è causa di questo complicato intreccio? 

Fin dal 1987, quando la commissione Bruntland definì la sostenibilità come «la capacità di gestire gli aspetti economici, sociali e ambientali in armonia e nel rispetto delle generazioni future», la corsa a cercare di capire che cosa questo significasse davvero è stata

senza precedenti. La definizione non tracciò, né suggerì, alcun tipo di azione pragmatica capace di aiutare le imprese ad avviare un reale percorso di sostenibilità. Con il passare del tempo e l’aumentare della sensibilità pubblica sui temi della responsabilità sociale e ambientale, le aziende si sono trovate ad agire in modo reattivo, obbligate solamente a fare qualcosa di apparente, per cercare di sopravvivere nel mercato delle imprese apparentemente responsabili, note anche come Green Companies.


In quest’ottica, attraverso aziende come Esquel
e Posco, solo per offrire un esempio di riflessione
 su come la supply chain può generare una definizione
 di “business sostenuto” molto più elaborata
 e ampia, al di là degli imperativi di efficienza logistica. Inoltre il modus operandi collaborativo, legato all’interazione tra rivali e tra aziende simili puo’ diventare una nuova misura di efficienza, molto più radicata nelle dinamiche del territorio e di ciò che gli economisti definiscono da decenni come il miracolo dei cluster. 
Lo stesso Michael Porter ha recentemente insistito
 su una nuova polarità della gestione strategica, legata non soltanto allo schema delle forze di competizione ma a una definizione del vantaggio competitivo ottenuto come risultato dell’unione tra il valore economico e quello sociale. In sintesi, i comandamenti si sono adattati a una visione
 del business più agile, efficiente e organica, a discapito di una visione più espansionistica.

Laddove altri temono solo i costi, possiamo identificare dei “campioni” in aziende capaci di intravedere le opportunità. Anche nella nostra situazione italiana ci sono, peraltro, aziende che da anni predicano la sostenibilità in modo meno mediatico, ma senza dubbio autentico. Basti pensare al fenomeno di Eataly, ambasciatore di un concetto di slow food non soltanto legato alla nostra tradizione di Paese dotato di genialità culinaria, ma come esempio di azienda che si afferma principalmente per la sua supply chain, ormai divenuta un valore intrinseco alla filosofia dell’impresa.
 Eataly è uno di quegli esempi di chi, pur non sapendo definire che cosa sia la sostenibilità, la pratica e ne fa un cardine del proprio business model. Esistono già oggi piccole e medie aziende che, come Eataly, possono diventare un caso esemplare e rappresentano un vero ecosistema basato sulla modestia di chi pratica l’armonia con l’ambiente, con il sociale e con l’economico, senza con questo cercare di trarne indebiti vantaggi “politici”.

N.B. Questo articolo si ispira ad un commento scritto da Mark Esposito per Harvard Business Review Italia

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